Postmodernissimo, il cinema di comunità che rigenera il tessuto sociale
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Perugia, Umbria - Nel 2014 nasce a Perugia il primo cinema di comunità, l’attuale Postmodernissimo. Una stimolante realtà culturale gestita da l’Anonima Impresa Sociale, costituita da quattro ragazzi cresciuti con la passione per il cinema e l’arte visiva. A un certo punto infatti Giacomo Caldarelli, Andrea Frenguelli, Ivan Frenguelli e Andrea Mincigrucci decidono di prendere in gestione un cinema storico nel centro di Perugia, chiuso dal 2000, ripensandone gli spazi e attuando una vera e propria operazione di rigenerazione urbana, sociale e culturale. Lo scopo? Ripopolare un quartiere come luogo di socialità favorendo anche l’apertura nei dintorni di nuove attività economiche e di aggregazione sociale.
Ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento e alla partecipazione dei cittadini sia come protagonisti della programmazione e delle attività culturali, sia come soci finanziatori della cooperativa. Nel luglio dello scorso anno, il Postmodernissimo ha ricevuto il Premio cultura di gestione per essere stato in grado di promuovere un modello innovativo di impresa culturale capace di incrementare e migliorare l’offerta di beni e attività culturali, la loro produzione e fruizione pubblica aperta a tutti senza discriminazione alcuna. Andrea Frenguelli, uno dei quattro virtuosi soci, si è reso disponibile per una chiacchierata.
Come nasce l’idea di un cinema di comunità in un momento storico in cui se ne parlava poco?
Hai ragione. Quello era un periodo in cui del cinema, come spazio fisico e sociale, si parlava poco perché erano i primi anni in cui si faceva strada Netflix. Eravamo già reduci dalla sbronza dei multisala. Sembrava veramente mettersi male. Il cinema di comunità era ed è la nostra risposta. Bisognava assecondare le istanze della comunità con un’offerta che coinvolgesse il pubblico. Con il cinema di comunità non abbiamo fatto altro che interpretare un rumore di fondo.
I cinema di comunità come il Postmodernissimo possono rappresentare la soluzione alla crisi delle sale cinematografiche e alla logica dei Multiplex?
Certo che sì! Siamo reduci dalle bolle sociali sui social network in cui sembrava che fosse sufficiente scambiarsi informazioni online. Un po’ come è accaduto durante la pandemia. Più che sancire la consacrazione della nostra vita sociale al remoto, la pandemia ha rappresentato l’overdose finale per un ritorno alle iniziative di comunità. Ci ha fatto riscoprire l’importanza della fruizione dal vivo del cinema, ma anche dei momenti di socialità comune. Si tratta di una risposta positiva a quelle dinamiche più capitalistiche che forse cominciano a scricchiolare e a far venire fuori le criticità, soprattutto dal punto di vista sociale.
A differenza del Postmodernissimo i Multiplex possono permettersi una sala vuota perché si basano su un’economia di scala, ma da un punto di vista sociale hanno avuto un torto quando molti cinema dei piccoli centri hanno iniziato a chiudere perché, nelle periferie italiane, nascevano le multisala. Il tempo però ha dimostrato che è sempre la comunità la risposta ai bisogni della comunità stessa. Ecco la forza dei cinema di comunità!
Cosa vuol dire realizzare un’idea di società in cui essere parte integrante con il cinema, la musica e l’arte in generale?
Il Postmodernissimo non punta mai al profitto tout court, ma al benessere del nostro intorno. Non c’è un’azione che compiamo che non sia finalizzata alla nostra idea di società più orizzontale, più umana, più solidale. Il nostro non è un lavoro “normale” perché ha soprattutto la responsabilità della crescita, dell’educazione, dell’arricchimento della comunità di appartenenza e questo fa progredire la società in senso lato. Ed è per questo che in Italia è una logica che funziona.
Quali sono i punti di forza del vostro cinema di comunità Postmodernissimo?
Il nostro punto di forza è rappresentato principalmente da una sorta di osmosi tra noi e il pubblico. Se le nostre proiezioni funzionano e stacchiamo tanti biglietti è perché abbiamo ben disegnato la nostra offerta sulla nostra audience. Per attirare il pubblico a vedere anche il cinema più impegnato e impegnativo lo assecondiamo con ciò che piace per far sì che arrivi, in qualche modo, a maturare una coscienza cinematografica. E in questo siamo molto bravi.
Noi non siamo scissi dai nostri frequentatori, che costituiamo anche formalmente attraverso un’assemblea degli spettatori e delle spettatrici con cui interagiamo e che ci ha permesso, soprattutto dopo la pandemia, di riportare il pubblico in sala. Questo è ciò che ci consente di resistere alla crisi: la capacità di interpretare i bisogni del nostro pubblico coinvolgendolo in modo attivo e responsabile.
Puoi fornirci qualche dato sull’attività del Postmodernissimo?
Stiamo tornando ai numeri prima della pandemia e probabilmente li abbiamo anche superati. Per tutto ciò sono fondamentali i nostri incontri in sala con i registi e gli addetti ai lavori. È questa la cosa che fa rispondere bene. Siamo diversi da un Multiplex dove entri, sbiglietti ed esci dall’altra parte. Da noi entri ed esci dalla stessa parte e attraversi una serie di punti: la cassa, il bar, la parte esterna dove noi stessi stimoliamo le persone a fermarsi per condividere la loro esperienza. Riceviamo talmente tanti feedback che non possiamo sbagliare completamente.
Quanto è importante capire il proprio pubblico?
L’anno scorso ci siamo fatti proprio questa domanda. Abbiamo così deciso di fare un breve sondaggio sull’età. Il pubblico del Postmodernissimo era abbastanza giovane, intorno ai 35/40 anni. Investire oggi su un ventenne e disegnare una programmazione che gli piaccia significa tenerselo per altri 60. Quindi per noi è importante investire sui nostri spettatori nuovi. Nel 2023 il pubblico si è ringiovanito. Abbiamo guadagnato molti spettatori nella fascia 25/30. Il periodo di adolescenza e post adolescenza è una cosa seria, ci si forma in quegli anni. Noi abbiamo potere d’azione, ma non è tutto. Siamo una comunità abbastanza ristretta. Se quelli sono gli anni di grande cinema, i ragazzi di quegli anni, che avranno vent’anni, poi diventeranno dei cinefili.
In una logica di cinema di comunità, quanto è importante l’interazione con i vostri partner sociali?
L’interazione con loro è fondamentale. Abbiamo un indirizzario delle associazioni di interesse culturale che interagiscono con il Postmodernissimo e facciamo un lavoro di contatto diretto settimanale. Se abbiamo un film in programmazione che pensiamo possa essere di interesse, chiamiamo i nostri partners sociali uno per uno per invitarli a vederlo. Questo è il nostro investimento. La gente preferisce il contatto diretto piuttosto che ricevere una mail come un’altra. Da questo punto di vista, abbiamo un rapporto estremamente buono con le persone, che non rappresentano un semplice elenco di contatti ma parte integrante del nostro contesto sociale. Anche noi siamo soggetti sociali quindi con chi altro potremmo parlare?
Vi è stato assegnato il Premio alla cultura di gestione. Qual è la pecca di altre imprese culturali che non decollano o muoiono prima di decollare?
Per rispondere a questa domanda dovremmo parlare di casi specifici, però molte volte chi inizia a lavorare in ambito culturale non parte pensando che tutto ciò che fa deve essere fonte di reddito. Molte volte ci si appoggia alla bandistica pubblica e si va avanti senza porsi il problema della propria sostenibilità economica. In un contesto capitalistico questa logica poco business purtroppo non porta a fare una buona impresa culturale. Non è l’unico motivo, ma se mi guardo intorno vedo questa incapacità di sostenersi economicamente. A Perugia ci sono delle realtà che fortunatamente ci raccontano il contrario, ma tendenzialmente è così.
In Italia si può vivere o no di cultura?
Certo che sì! Chi è così idiota da pensare che non si possa vivere di cultura? La diceria che questo Paese è ignorante io non la condivido, non la vedo così. Gli spettatori del Postmodernissimo hanno un’acume e una lucidità di analisi che non si vedono sui social. Questa overdose di social network, negli ultimi anni ci ha annebbiato il cervello. Ma a me il nostro corpo sociale non sembra così devastato e ce lo dice il fatto che le nostre sale sono quasi sempre piene.
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