Claudio Fava porta a teatro Paolo Borsellino e “La grande menzogna” dell’attentato
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Catania - 32 anni di menzogne, di dubbi, di domande. E la verità? Che fine ha fatto? Alla figura dell’eroe, del magistrato antimafia, del corpo a brandelli fa da contraltare un uomo animoso, lucido e imprevedibile che racconta cosa è successo dopo la sua morte, le trame tessute per fare in modo che tutto apparisse come l’ultimo atto di gloria di Cosa Nostra, perché è più semplice incolpare solo Cosa Nostra. È così che Claudio Fava – giornalista, sceneggiatore e scrittore – immagina Paolo Borsellino nello spettacolo “La grande menzogna”, andato in scena il 1° e il 2 marzo a Catania al Piccolo Teatro della Città.
Discostandosi dalla solita lettura che ammicca al dolore, all’eroismo e al martirio, Fava – al suo debutto alla regia – racconta un uomo dalle tante sfumature, nella condizione risolta di chi non c’è più, riepilogando i fatti accaduti con il distacco “divertito” di chi è altrove. Un’immagine molto diversa da quella che ci è stata restituita in tutti questi anni, in parte schiacciata dal racconto che ha voluto mostrare l’aspetto di lui che pubblicamente faceva e fa ancora più comodo.
Eppure i familiari di Paolo Borsellino lo ricordano come una persona molto positiva, con tanta speranza, soprattutto nei confronti dei giovani, non coraggioso in modo dissennato, ma consapevole e capace di una lettura ironica. Un ritratto molto diverso da quell’unico volto che conosciamo. Nel foyer del teatro incontro Claudio Fava, autore de “La grande menzogna”: una stretta di mano, qualche presentazione e subito ci ritroviamo a parlare dello spettacolo.
Non abbiamo molto tempo, ma basta per entrare nel vivo di alcune delle riflessioni che una storia come quella di Paolo Borsellino può risvegliare, a partire dall’accettazione di una qualsiasi verità pur di avere la coscienza a posto. Lo ascolto e provo a mettermi nei panni di chi vive sulla propria pelle la perdita di una persona cara, l’indifferenza ma soprattutto deve fare i conti con la sopraffazione.
«È un testo costruito su ciò che non è stato detto dopo la sua morte, le menzogne, i finti testimoni, le amnesie, i processi viziati. Paolo Borsellino non parla di mafia, non ce l’ha con Riina, punta il dito contro gli onesti, i pigri, i giusti, gli addolorati, i distratti, i falsi penitenti. Verso tutti coloro che si lasciano scivolare addosso verità e menzogne evitando di farsi domande e articolare dubbi. È più semplice piangere il morto una volta l’anno, come quando portiamo il santo patrono in processione con cori celebrativi e di buone intenzioni. Una sorta di mitologia pagana come è pagano il dolore manifestato durante le commemorazioni dei morti di mafia», sottolinea Fava.
Quelle volte che mi ritrovo a parlare con un parente di una vittima di mafia mi sento privilegiata e allo stesso tempo mortificata. Provo a immedesimarmi e un misto di rabbia, commozione, frustrazione e dolore mi scaldano. Lo stesso miscuglio di emozioni provate durante lo spettacolo. Di fronte alle invettive di Borsellino – potente e diretto, impersonato da David Coco, abile anche a calarsi nei panni degli stessi mafiosi alla sbarra – non è semplice restare impassibili, non farsi domande, non essere assetati di verità e chiedere giustizia.
Il depistaggio della sua morte è come se lo avesse ucciso due volte, è servito a restituire al paese una verità colpevole di processo, a garantire qualche carriera utile affinché non si arrivasse a capire chi aveva mosso la mano di Cosa Nostra. Le domande sono state poche, le hanno fatte i figli, la famiglia e alcuni giornalisti. «Durante la mia presidenza alla Commissione Antimafia il nostro lavoro di ricerca e analisi, che ha prodotto due relazioni, è stato interpretato quasi come un trastullo personale», continua Fava.
Una giustizia che crede al falso pentito Vincenzo Scarantino, usato per sviare le indagini sulla morte di Paolo Borsellino, le cui dichiarazioni hanno portato a sentenze definitive di condanna all’ergastolo di persone innocenti, sembra proprio un trastullo personale. “… vi basta dare il mio nome alle strade e alla piazze pur sapendo che per 17 anni la verità è stata prigioniera di vizi e di necessità…”. È la domanda che Borsellino fa a tutti noi. “Io sono morto, ma voi no. Tocca a voi decidere”.
Fava lo ha immaginato con questa veemenza perché, al suo posto, anche lui sarebbe così. Immagina anche suo padre e chiunque abbia subito oltraggio o una morte violenta perdendo le ragioni di una vita intera nelle celebrazioni e nell’esaltazione del lutto.
«Credo che questa occasione al dubbio non si sia persa, sarà forse un po’ meno frequentata, ma abbiamo ancora la capacità di mettere in discussione la semplicità di alcune certezze che ci hanno ricamato addosso come i vestiti della festa. Non mi riferisco solo alle vicende criminali, penso a una lettura più complessa di ciò che accade in questo mondo e che, con atteggiamento semplicistico e manicheo, figlio di una tradizione cattolica molto rigorosa, viene distinto in bene o in male – pensando di sapere dove collocare il male e noi all’opposto – come se non fosse necessario un atteggiamento più articolato e meno superficiale».
«Credo che questa vocazione ci sia ancora, sopravvive con l’uomo e forse è anche un’eredità di questo tempo che offre soluzioni facili ma false. Certo, non è facile essere ottimisti ma non abbiamo nemmeno il diritto di essere pessimisti, perché se il pessimismo diventa nichilismo è assenza di visione e prospettiva, è un rifugio, una fuga per dire che non cambierà mai nulla», conclude Claudio Fava.
“Dedicatemi la verità”. Con queste parole Paolo Borsellino saluta il suo pubblico. Alla banalità del male sostituisce la banalità del bene, l’ovvietà, un rifugio per non accorgersi che la verità viene dilapidata sotto i propri occhi. Ieri come oggi. E sembra quasi un invito a non arrendersi a nessuna delle finte verità utili solo a tenerci buoni, a risvegliare le coscienze e alimentare nuovi dubbi per un pensiero critico, evoluto e libero.
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