Laura Cocco: “L’olio d’oliva in Sardegna è un fattore identitario, ma bisogna valorizzarlo”
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Oristano - Lo chiamano “oro verde” non a caso: l’olio extravergine d’oliva è un bene prezioso molto apprezzato, ampiamente diffuso in Sardegna. Negli ultimi anni però il cambiamento climatico ne ha ridotto la produzione con un conseguente aumento dei prezzi a livello globale.
Ne abbiamo parlato con Laura Cocco, imprenditrice dell’azienda olearia Peddio di Cuglieri nonché presidente dei giovani imprenditori e agricoltori di Coldiretti per la provincia di Oristano e vicepresidente regionale. Cocco è anche membro dei gruppi di dialogo civili del Ceja, il Consiglio europeo dei giovani agricoltori, e dell’Osservatorio europeo del mercato dei prezzi dell’olio e delle olive da tavola.
Qual è la situazione della filiera olivicolo-olearia attualmente?
Non è un periodo facile, soprattutto a causa del cambiamento climatico. Da due campagne olearie a questa parte c’è una situazione difficile che investe il mercato dell’olio d’oliva: i prezzi sono schizzati alle stelle proprio perché il cambiamento climatico e soprattutto la siccità stanno incidendo pesantemente sulla produzione a livello mondiale. I problemi principali sono quindi la carenza di olio d’oliva e la conseguente diminuzione dell’offerta e della produzione rispetto alla media.
In Europa cosa sta accadendo?
La produzione europea è calata del 30% rispetto alla media degli ultimi cinque anni. Più nello specifico, se parliamo di olio d’oliva non possiamo non citare la Spagna, che è leader mondiale per la produzione e per l’esportazione e che proprio per questo incide in modo determinante sul prezzo del prodotto. Là si è verificata una situazione disastrosa, con una diminuzione della produzione di olio d’oliva del 55% rispetto agli anni precedenti a causa della siccità. La terra si è inaridita diventando dura come la pietra.
In quale misura è variato il prezzo dell’olio d’oliva?
In Italia siamo arrivati a un aumento del 50%. In questo momento, mentre parliamo, l’olio d’oliva extravergine 100% italiano è a 9,60 euro al chilo. Una volta trasformato in litro il prezzo sale ulteriormente. In Spagna è aumentato del 65%. La situazione è critica e a questo si aggiunge la diminuzione delle scorte di olio, essendoci meno produzione. Faccio un esempio: siamo a marzo, è ancora disponibile l’olio d’oliva dell’ultima campagna, un olio nuovo, fresco, che ha un suo costo. A un prezzo più basso viene generalmente venduto l’olio prodotto un anno fa, a patto che abbia mantenuto le caratteristiche chimiche e organolettiche che lo rendono adatto alla vendita. Purtroppo con la riduzione delle scorte non c’è neanche questa possibilità.
Una situazione che si ripercuote anche sui prodotti affini.
Sì, ne è una prova l’aumento del prezzo dell’olio di semi e persino dell’olio lampante. Quest’ultimo è un olio d’oliva che ha sapore e odore sgradevoli causati dall’alta percentuale di acidità e non può essere venduto. Viene lavorato e raffinato chimicamente per renderlo commestibile e commercializzabile. Per fare un raffronto: l’olio extravergine, per poter essere definito tale, deve avere un’acidità inferiore allo 0,8%. L’olio di oliva, tra lo 0,8 e il 2%, mentre l’olio lampante ha un’acidità oltre il 2%. Viene quindi miscelato per rientrare nei parametri di legge e poter essere venduto. Il prezzo attuale dell’olio lampante è di 8,80 euro al chilo, poco meno dell’extravergine ma con una qualità decisamente inferiore.
L’olio extravergine d’oliva sta quindi diventando un bene di lusso?
Sì. In questo caso ne è una prova il fatto che nei supermercati, sempre più spesso, le bottiglie di olio extravergine hanno il dispositivo antitaccheggio. È importante, a maggior ragione in una situazione come questa, sensibilizzare i consumatori e invitarli a leggere molto attentamente l’etichetta perché si sta commercializzando di tutto. Quando si vede una bottiglia d’olio d’oliva a un prezzo un po’ più basso, è fondamentale domandarsi perché, verificare l’anno di produzione, se è italiano oppure no, se è una miscela o puro. Considerando che, come per l’olio lampante, la differenza di prezzo tra questo e un extravergine è minima, vale la pena spendere un po’ di più e acquistare un prodotto di qualità, tanto meglio se certificato.
Qual è la situazione dei piccoli e medi imprenditori del settore?
Sta diventando critica perché i margini di guadagno si stanno riducendo sempre di più. Già con la guerra in Ucraina sono aumentati a dismisura i costi: vetro, lattine e tappi erano introvabili e quello che si riusciva ad acquistare aveva prezzi esorbitanti. Da questo siamo passati all’aumento del costo di produzione dell’olio d’oliva e a tutto quello che sta accadendo ora.
La Sardegna da questo punto di vista è svantaggiata rispetto al panorama italiano?
Il fatto di vivere in un’isola comporta dei privilegi ma anche delle problematiche. Abbiamo un clima favorevole per la produzione e per ottenere prodotti di qualità. Se però facciamo un discorso puramente commerciale, i problemi ci sono. In primo luogo il costo del trasporto, se vogliamo esportare i nostri prodotti. Allo stesso modo, questo costo incide sulle materie prime dei fornitori che hanno sede nella penisola.
Un problema non secondario è rappresentato dai tempi di consegna. L’olio in sé ha una scadenza per legge a 18 mesi, ma chi vende un prodotto fresco deve avere la certezza della celerità della consegna. Queste sono situazioni di fatto che non possono cambiare e di cui naturalmente dobbiamo tenere conto.
Rispetto al settore olivicolo-oleario, cosa si può fare per farlo conoscere maggiormente anche fuori dall’isola?
Sicuramente aiuterebbe una buona campagna di promozione sulla cultura enogastronomica, oltre che sulle bellezze naturali e paesaggistiche. La Sardegna è conosciuta per il mare e magari quando si viene in vacanza si ha modo anche di conoscerne le bontà culinarie. Manca però una informazione mirata a questo.
Parlando nello specifico del nostro settore, in Sardegna non si è ancora sviluppato l’oleoturismo, che comprende una serie di attività quali visite guidate e degustazioni allo scopo di far vivere un’esperienza di scoperta del prodotto e allo stesso tempo del territorio. Attività che si possono abbinare alla cultura organizzando magari concerti o anche presentazioni letterarie negli oliveti, in un’atmosfera unica a contatto con la natura.
Il settore è appetibile per i giovani?
Secondo me sì. Se una persona ama la campagna, questa offre tante possibilità. Quello che vedo però è che molto spesso è considerata alla stregua di una ruota di scorta, quando magari non si hanno altre prospettive o aspirazioni. Può anche andare bene così, se è quello che si desidera, ma bisogna essere consapevoli del fatto che lavorare in campagna richiede impegno, conoscenze, preparazione. Chi ha un’azienda agricola oggi non può permettersi di lavorare come si faceva cinquant’anni fa. È necessario stare al passo con i tempi, innovare, fare quel qualcosa in più per non essere risucchiati dal sistema.
Cosa si potrebbe fare per incentivare le nuove generazioni a tornare alla terra?
Premesso che tornare nelle campagne, nelle zone rurali, sarebbe anche un’azione di contrasto dello spopolamento, sono consapevole del fatto che chi non ha la fortuna di avere un’azienda di famiglia in cui insediarsi incontra enormi difficoltà ad avviarne una. Ci sono pochi finanziamenti, qualcuno deve sempre garantire per te. Ci vorrebbero incentivi, bandi e prestiti agevolati per i giovani. Forse in questo modo riusciremmo a ripopolare i nostri paesi, che stanno invecchiando progressivamente. Se parliamo nello specifico di oliveti, in Sardegna sono anche un fatto identitario. Quasi ogni famiglia ne possiede uno, mancano però iniziative comuni per rendere questo settore sempre più valorizzato e conosciuto.
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