Giulia Minoli: “La resistenza antimafia ha una lunga storia, noi la raccontiamo col teatro”
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Reggio Calabria - «Il teatro non dà lezioni di vita e non ci offre soluzioni a buon mercato, offre stimoli e opportunità di conoscere e riflettere ed è questo che noi cerchiamo di fare, con convinzione, pensando soprattutto ai ragazzi». Partendo da questa convinzione comune, tredici anni fa, le autrici Giulia Minoli ed Emanuela Giordano hanno messo in piedi un “Palcoscenico della legalità”, un progetto di CCO – Crisi Come Opportunità.
Lo spettacolo “Dieci Storie proprio così” ha debuttato nel 2011 al Teatro di San Carlo di Napoli e da allora la scrittura di quest’opera non si è mai fermata: Teatro Argentina di Roma, il Piccolo di Milano, il San Ferdinando di Napoli e il Gobetti di Torino. L’ultimo atto, con le nuove storie soprattutto legate alla ’ndrangheta, è pronto per approdare nei teatri e nelle scuole di Calabria: il 4 aprile al Teatro Apollo di Crotone e il 6 aprile all’Auditorium Comunale Unità d’Italia di Roccella Ionica (RC).
«È uno spettacolo teatrale rivolto a tutti, anche agli adulti», racconta Giulia Minoli ideatrice del progetto. «Poi con le scuole facciamo un lavoro più approfondito, gli attori vanno nelle classi a incontrare i nostri giovani, insieme agli attivisti e ai dottorandi delle università con cui collaboriamo, e fanno i laboratori con i ragazzi». Lo spettacolo è in continuo divenire con la drammaturgia che si arricchisce di volta in volta di nuove storie, fino ad assumere una nuova veste e un nuovo nome: “Se dicessimo la verità” è un’ulteriore evoluzione del progetto, un’indagine sul nostro presente minacciato da una “distrazione di massa” che lascia ancora più spazio al potere criminale e alla “prassi” corruttiva come modus vivendi.
Indifferenza, distrazione di massa, possibilità di scegliere. Intorno a questi concetti ruotano la scrittura e la messa in scena che attraversano teatri e scuole di tutto il Paese, specie quelli calabresi. L’opera dibattito si concentra sugli aspetti meno conosciuti del fenomeno mafioso: la globalizzazione, l’alta finanza, i cosiddetti uomini cerniera, professionisti accreditati che fanno da tramite tra il crimine e le amministrazioni pubbliche, gli imprenditori in difficoltà e i sempre più spregiudicati sistemi di investimento. Ma anche sulle vite e le storie di giornalisti impegnati e testimoni di giustizia, di chi combatte ogni santo giorno la criminalità organizzata in ogni suo chiaroscuro.
«Ci siamo resi conto sempre di più di quanto fosse importante creare degli anticorpi all’indifferenza e alla distrazione di massa rispetto al fenomeno della percezione delle mafie», spiega ancora Giulia Minoli. “Concordi che abbiamo fatto parecchi passi indietro?”, non posso fare a meno di chiedere a Giulia. «Concordo: devo ammettere che, da quando abbiamo cominciato a lavorare allo spettacolo, questa crisi la percepiamo moltissimo. Il movimento antimafia sta attraversando una crisi molto grande, purtroppo non c’è un cammino comune, ognuno lavora sul suo pezzettino, mancano una progettualità e una visione comune forte».
Sul sito di CCO è possibile leggere tutte le storie raccolte e raccontate in questi anni e tra queste le storie calabresi sono tantissime, «molte – continua Giulia Minoli – le abbiamo scelte insieme al dottor Nicola Gratteri, che segue questo progetto da sempre e ha partecipato a molti dibattiti. Tra le storie che abbiamo deciso di raccontare ci sono quelle legate alle persone che in prima linea, facendo semplicemente il loro lavoro, combattono la criminalità organizzata. Quindi non solo le persone che non ci sono più, ma imprenditori come Gaetano Saffioti o giornalisti come Giovanni Tizian».
Mentre conversiamo il resto della compagnia è in grande movimento, è quasi tutto pronto per portare gli ultimi sforzi in Calabria, dove certamente il fatto non passerà inosservato. «Quando andiamo a Napoli o Palermo ci sono molte più situazioni culturali che rappresentano queste tematiche, in Calabria purtroppo no», lamenta Giulia Minoli. «Quando veniamo abbiamo la sensazione di quanto siano importanti non solo la memoria ma anche il coinvolgimento dei familiari e dei protagonisti direttamente sul progetto».
E ai protagonisti di queste storie che effetto farà vedere pezzi della loro storia su un palcoscenico? «Ha un impatto grande perché sono storie dirette di noi familiari», risponde Deborah Cartisano, figlia di Lollò, il fotografo di Bovalino sequestrato e ucciso dalla ‘ndrangheta oramai più di trent’anni fa. «Questo spettacolo parla molto ai ragazzi di tutta Italia e la storia raccontata da noi ai ragazzi permette di mostrare loro come si resiste, come si manda avanti la memoria delle vittime, l’impegno di noi familiari, delle associazioni. È un po’ far vedere loro che sì ci sono state delle vittime – e ce ne sono ancora – ma c’ è pure chi resiste attraverso le scelte che fa, come rimanere in Calabria. Quello che dico spesso ai ragazzi quando facciamo i laboratori nella scuola è proprio questo: la memoria calabrese, l’impegno calabrese antimafia è sempre qualcosa che sembra sia venuto da poco. E invece non è così. La resistenza antimafia la facciamo da tanto, è stata sempre poco raccontata e conosciuta, perciò è prezioso questo spettacolo: perché dimostra che è stato sempre così».
Lo chiediamo anche a Vincenzo Chindamo, fratello di Maria, vittima di “femminicidio di stampo mafioso”, come lui stesso chiama l’orrore subito dalla sorella uccisa e data in pasto ai maiali a Limbadi. In questi giorni è alle prese con l’inizio del processo, ma due settimane fa è riuscito a presenziare al debutto al Piccolo di Milano. Vincenzo era lì a vedere il personaggio di Maria, viva e in scena. «Riportare in vita i desideri, le parole, i sogni di una donna che la ’ndrangheta avrebbe voluto mettere a tacere ma il teatro rende viva è uno degli atti più rivoluzionari contro la ’ndrangheta», racconta Vincenzo.
«Partecipo a tantissime cose, questa mi ha emozionato parecchio. Quella distanza cortissima tra chi recita e chi assiste allo spettacolo, quell’emozione che ho sentito stando lì a guadare Maria seduta, che parlava. Perché questo spettacolo ha voluto raccontarla viva, non morta. Ed è questo il messaggio rivoluzionario, contro la ‘ndrangheta e la cultura di ‘ndrangheta che pensa di poter uccidere e mettere a tacere le persone con i suoi tribunali, per fare i loro porci comodi», conclude Vincenzo. «La storia di Maria sta dimostrando per il tramite della collettività e, in particolare, con l’arte del teatro che non è così».
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