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Fino a un paio di mesi fa, a leggere i resoconti dei giornali e dei siti d’informazione, moltissima gente si era fatta l’idea che Chiara Ferragni fosse un’imprenditrice di successo, la creatrice di un brand divenuto punto di riferimento internazionale nel suo settore, una specie di ibrido tra Donatella Versace e Steve Jobs.
Poi, all’improvviso, dal 15 dicembre scorso la narrazione – lo storytelling, direbbe lei – è cambiata drasticamente di segno: dopo l’inchiesta dell’Antitrust sull’ormai famigerato caso del pandoro si è iniziata a raccontare l’influencer come una mezza truffatrice assetata di denaro, che non si faceva troppi scrupoli ad arraffare finanche i soldi che sarebbero dovuti andare in beneficenza.
Ieri invece, quando ho assistito alla sua attesissima intervista a Che tempo che fa, la Ferragni mi è sembrata semplicemente una ragazzina impaurita per l’interrogazione, una studentessa che per l’ansia si era preparata a lungo, studiando a memoria una lezione che non vedeva l’ora di sciorinare di fronte al professor Fabio Fazio.
Lo stesso Fazio dal canto suo, da consumato professionista qual è, ha scelto l’unico atteggiamento che aveva senso tenere in quel contesto: quello del buon padre compassionevole, a cui magari viene la fugace tentazione della tirata moralista ma che poi capisce che è molto più efficace una frase pronunciata con il sorriso triste di circostanza: «Figlia mia, ma che cavolo hai combinato?».
In un solo momento ho intravisto un lampo di autenticità in mezzo a quel fiume di parole premasticate, che sembravano portare la firma di un ufficio stampa o di uno studio legale. È stato quando Chiara ha confessato che quel successo di pubblico che tanto agognava da piccola, illudendosi che fosse la panacea di tutti i suoi mali, non si era rivelato tale; che l’esplosione di follower e di fatturato non era bastata a scacciar via le sue incertezze personali e le sue insoddisfazioni esistenziali; che anzi si era ritrovata prigioniera di un’immensa ruota del criceto, sempre affannata a correre verso un nuovo trionfo senza mai godersi un attimo di quella vita che pure, da fuori, ci sembrava così invidiabile.
Non voglio unirmi anch’io al coro delle diagnosi psicologiche della mutua, sputate senza averne la competenza professionale né tantomeno conoscere personalmente la protagonista. Vorrei solo esprimere la modesta impressione, necessariamente superficiale, che nel mio piccolo mi sono formato ascoltando una mezz’ora d’intervista televisiva. Quello che penso è che tanto i cantori di Chiara Ferragni donna realizzata, quanto gli accusatori della Ferragni malvagia approfittatrice, l’abbiano clamorosamente sopravvalutata, in un senso o nell’altro.
A me è sembrato di trovarmi di fronte a una bambina che faceva finta di essere grande, stritolata da un meccanismo che non era ancora pronta a gestire, soltanto perché le deve ancora essere lasciato il tempo per maturare – e probabilmente questo momento di crisi l’aiuterà a farlo, o quantomeno glielo auguro. Semmai, insieme a lei, un esame di coscienza collettivo dovrebbe farselo anche la nostra società, che a una fanciulla che voleva solo giocare al dottore ha messo in mano un bisturi e l’ha mandata a operare i pazienti veri.
Mi piacerebbe che questa fosse l’occasione di riflettere sul nostro vizio di innalzare frettolosamente sull’altare l’idolo del momento, il nuovo eroe senza macchia e senza paura. E poi, quando non si rivela tale, semplicemente perché non è un dio ma un essere umano, gettarlo nella polvere con la stessa fretta e la stessa pervicacia.
Chiara Ferragni non è né buona né cattiva, è una giovane donna come tante, della mia stessa età, con le potenzialità e i difetti di qualunque altra persona. Il problema è che una generazione intera ha eletto lei – e tante altre persone come lei – a maestre di vita, quando forse sono proprio loro, come del resto anche tutti noi, ad avere ancora bisogno di veri maestri.
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