Come sta l’agroalimentare italiano? La parola a Silvio Barbero
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Per parlare di filiere del cibo – presenti o future – occorre fermarsi un attimo e interrogarsi su come stia il settore agroalimentare italiano. Istintivamente infatti siamo tutti “dalla parte dei contadini”, degli agricoltori, delle sacre braccia che lavorano la terra, ma in pratica la nostra società da qualche decennio ha regolarmente sminuito questo tipo di mestiere in primis nella cultura popolare – basti pensare che per insultare qualcuno si dice “braccia rubate all’agricoltura” – e poi nei modelli economici e politici che hanno continuamente sussidiato il settore, ma non per aiutare “contadini o agricoltori”, quanto per sostenere un unico modello di agricoltura o allevamento industriale che spesso finisce col perdere completamente il contatto con la produzione del cibo stesso.
L’apice è stato toccato con dei finanziamenti tesi a coltivare determinate produzioni ma non a raccoglierle: sono tanti infatti i campi lasciati abbandonati dopo essere stati coltivati. Per avere un quadro reale di come sta il settore agroalimentare italiano, abbiamo quindi deciso di dare la parola a Silvio Barbero, Consigliere Delegato dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, nonché co-fondatore di Slow Food e Presidente del Comitato Scientifico di Filiera Futura.
Barbero – nella nostra chiacchierata – ha subito messo in chiaro che il settore agroalimentare italiano non sta benissimo. Mi ha poi spiegato che per inquadrare davvero il tema occorre dividere il campo in tre ambiti: la produzione di cibo, la sua trasformazione e la sua distribuzione. Vediamo quindi quanto è emerso, prima di affrontare con lui il ruolo che Filiera Futura – l’associazione che dal 2020 lavora in tutta Italia per innovare il settore agroalimentare e valorizzare l’unicità dei prodotti Made in Italy, modellizzando e promuovendo progetti condivisi, con particolare attenzione alle aree marginali e rurali – vuole avere in questo quadro.
LA PRODUZIONE DI CIBO
«Questo settore è in crisi da tanti anni», esordisce Barbero. «Il sistema di produzione primaria del cibo, dell’agricoltura è in grande sofferenza. Nel tempo la produzione si è concentrata quasi esclusivamente nelle grandi aree di pianura, determinando un progressivo abbandono di aree come quella della mezza montagna, che potevano avere ancora tante cose da dire nella produzione primaria di cibo».
Barbero divide poi l’analisi tra realtà produttive artigianali e industriali. «Le piccole e medie realtà produttive italiane montane o pedemontane sono quindi quelle più in sofferenza e sono state colpite dalle trasformazioni del mondo produttivo e distributivo che oggi lavora solo su grandi numeri, su grandi concentrazioni. Essere in aree meno servite dall’infrastruttura urbana e tecnologica, inoltre, le ha indebolite anche sul piano delle innovazioni. Da qui nasce la crisi della piccola e media realtà agricola».
Nello stesso tempo, laddove ci sono state le maggiori concentrazioni di produzione di cibo e quindi le grandi imprese – come ad esempio in Pianura Padana – si è spesso concentrata la produzione di minore qualità con meccanismi di produzione massiva che hanno avuto come ulteriore conseguenza il gravissimo inquinamento. A questo proposito Barbero fa riferimento non solo alla produzione agricola ma anche a quella degli allevamenti intensivi.
«Ecco – conclude Barbero – che l’agricoltura, storicamente luogo di preservazione del territorio e di costruzione di comunità rurali, oggi volente o nolente è diventata soggetto di inquinamento con importanti ricadute anche sui cambiamenti climatici e necessita dunque di un complessivo ripensamento». Lo stato dell’agricoltura italiana è quindi di grande crisi. Per fortuna abbiamo ancora tante tipicità, culture agricole e una forte tradizione contadina che ci permettono di stare in piedi, ma un intervento in questo ambito è prioritario.
LA TRASFORMAZIONE DEL CIBO
Il settore della trasformazione alimentare invece sta un po’ meglio. Anche qui Barbero divide il settore artigianale da quello industriale, ma fa notare come in entrambi i casi, pur tra mille difficoltà, si possano individuare delle note positive. In questo ambito infatti, il co-fondatore di Slow Food sottolinea come sopravvivano qualità e tipicità locali permettendo al sistema artigianale italiano «una crisi meno drammatica».
«Occorre puntare in modo chiaro e diretto sull’artigianato per rilanciare un’idea di Made in Italy di qualità, in grado di valorizzare la filiera artigiana, innestando processi virtuosi in grado di valorizzare aree che sono in crisi, come le aree cosiddette marginali, che in questo quadro possono invece diventare uno strumento importante per valorizzare territori marginali, specificità e biodiversità».
Perché ciò avvenga però i protagonisti della piccola e media impresa trasformativa si devono mettere insieme, fare sinergia, fare rete: «Piccolo è bello se ci si mette insieme», sottolinea. «Anche l’industria agroalimentare italiana ha ancora dei buoni livelli qualitativi: le esportazioni del prodotto trasformato italiano, come olio o pasta, sono in crescita». Anche questo settore non è esente da problemi, ad esempio nel settore caseario, ma in generale è un settore forte, vivace e trainante, che potrebbe anche farsi in parte carico della crisi del settore produttivo, mentre ciò non avviene a sufficienza.
«Vanno mantenute le filiere italiane, frenando l’acquisto di nostre realtà da parte di multinazionali straniere e va stimolata la trasparenza e l’innovazione nelle pratiche, nelle attività e strategie che facciano diventare il Made in Italy non solo l’esempio della migliore qualità gastronomica mondiale, ma anche dell’avanguardia della qualità sostenibile nel mondo. La sostenibilità va infatti messa al centro e su questo ambito abbiamo ancora tanto lavoro da fare». Barbero specifica che qui non si riferisce solo al tema delle certificazioni ma anche all’attenzione più generale che l’industria agroalimentare deve avere verso la transizione ecologica. Occorre quindi ripensare le politiche agricole.
LA DISTRIBUZIONE DEL CIBO
Anche qui partiamo dal mondo artigianale. Le realtà più interessanti in questo ambito hanno un buon risultato quando riescono a costruirsi dei loro circuiti distributivi – ad esempio via internet o attraverso i mondi dei Gruppi di Acquisto Solidale – senza dover ricorrere alla grande distribuzione.
Cosa è cambiato nella grande distribuzione? «Per ora poco. Continua a guardare solo al prezzo, a competere su quello. Le colpe della crisi dell’agroalimentare italiano non sono tutte della Grande Distribuzione Organizzata ovviamente, ma sicuramente la GDO è legata a dei monopoli: tre o quattro grandi corporazioni europee determinano il modello. Se non cambiamo il modello distributivo è difficile cambiare il resto. Finalmente – mi spiega Barbero – si comincia a dire che il prezzo non può essere sotto costo di produzione ma ci vogliono delle leggi, non basta dirlo».
Il Presidente del comitato scientifico di Filiera Futura fa notare come il settore sia preda – da sempre – di «ingranaggi malati e forzati». Ad un certo punto si è rotto qualche dentino ed è entrato in crisi il sistema. «Se vogliamo cambiare le cose dobbiamo partire proprio dalla grande distribuzione. Ad oggi, mancano politiche che educhino i consumatori. In occasione del ventennale dell’Università di Scienze Gastronomiche – mi confida – proporremo che l’educazione alimentare diventi materia curricolare nelle scuole primarie e secondarie. Si avrebbe così una rivoluzione totale. Creeremmo infatti dei consumatori consapevoli in grado di leggere e comprendere le etichette e fare quindi scelte oculate».
Barbero mi fa anche notare come i tre settori appena descritti siano fortemente interconnessi. Se non si interviene sulla crisi della produzione del cibo, il settore trasformativo sarà costretto ad acquistare le materie prime all’estero, con danni irreparabili per l’immagine del Made in Italy e quindi anche del settore distributivo.
LE PROPOSTE DI FILIERA FUTURA PER L’AGROALIMENTARE ITALIANO
Qual è la proposta di Filiera Futura? Barbero riassume le attuali proposte in quattro ambiti principali.
- L’innovazione. Le filiere e soprattutto le piccole e medie imprese hanno bisogno di poter fruire degli strumenti di innovazione – che possano anche innestare percorsi di trasparenza e tracciabilità attraverso le tecnologie – e devono investire sull’innovazione del packaging che deve essere sostenibile. Quindi Filiera Futura ha il compito di aiutare le piccole e medie imprese artigianali in modo che possano rispondere in modo agile al mercato con tutte le tecnologie disponibili.
- Le filiere fragili. Filiera Futura vuole favorire la collaborazione con gli enti locali e le altre istituzioni aiutandole a recuperare terreni incolti e aree dismesse che possono avere una grande potenzialità, visti anche gli effetti che i cambiamenti climatici stanno avendo nel cambiare le cose. «Non basta avere le terre. Bisogna creare un sistema di sostegno ai giovani a livello di formazione agronomica, finanziaria e tecnologica».
- Ricostruire il legame tra le comunità locali e il mondo agricolo attraverso l’attività culturale. «Filiera Futura deve essere un soggetto che fa e trasferisce cultura e quindi bisogna lavorare sulle progettualità concrete, sostenendole e contemporaneamente occorre produrre riflessioni e seminari utili al mondo agroalimentare italiano e non. Dobbiamo raccogliere e trasferire sedimenti di cultura».
- Sviluppare iniziative emblematiche a tutela della biodiversità attraverso campagne di informazione e consapevolezza diffuse sul territorio. Ad esempio il progetto “+ Api”. «Il tema della biodiversità e della naturalità deve arrivare anche in piccole realtà in cui si ritrovano le comunità locali, attraverso campagne pubbliche».
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