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Bologna, Emilia-Romagna - Qualche mese fa abbiamo raccontato la storia della nostra Elena Rasia – giornalista e attivista per la disabilità – e del suo progetto di coinquilinaggio solidale Indi Mates. La lunga chiacchierata in occasione della quale me ne ha parlato però ha offerto molti spunti, in particolare su alcuni temi che a Elena, persona con disabilità, e a tutta la comunità che si batte per cambiare l’approccio abilista stanno molto a cuore, come il ruolo dei caregiver e la necessità di puntare con decisione su percorsi di autonomia, cosa che invece oggi accade di rado. Proviamo dunque ad analizzarli più a fondo.
PER UN NUOVO APPROCCIO ALLA DISABILITÀ
Elena parte prendendo come esempio sé stessa e la sua disabilità: è affetta da sindrome fetoalcolica e da una paralisi cerebrale. «Riesco di più a fare delle cose pratiche piuttosto che a studiare, per questo ho sempre saputo di avere qualcosa di diverso», osserva. «Ho amici con paralisi cerebrale che non hanno mai avuto problemi a scuola, io non ho neanche preso il diploma e al lavoro uguale, non sono mai riuscita a tenere un impiego più di due mesi [una piacevole eccezione è proprio Italia Che Cambia, con cui Elena collabora da quasi tre anni, ndr]».
Raccontandomi della nascita di Indi Mates, Elena tocca un tasto fondamentale che spiega bene le carenze dell’approccio alla disabilità oggi in Italia. «Quando ho lanciato il progetto – ricorda – cercavo una coinquilina e ho proposto uno scambio: l’alloggio in cambio di presenza e aiuto serali. A trent’anni non volevo vivere come un’ottantenne, con la presenza costante di un’OSS». Un concetto semplice che però si smarca nettamente dall’approccio assistenzialistico che caratterizza quasi tutti i servizi dedicati alla persona con disabilità.
Secondo Elena ogni persona con disabilità deve poter scegliere dove vivere e con chi, senza essere costretta a stare insieme ad altre persone con disabilità solo per questioni economiche. «È culturalmente diffusa l’opinione secondo cui occuparsi di disabilità è un lavoro, chi si rapporta con una persona disabile deve essere un professionista pagato e chi ha una disabilità non può avere una vita sociale ed è destinato a un’esistenza triste, da malato. In realtà disabilità non vuole sempre dire avere una malattia e questo non lo hanno capito neanche molti media che dicono “affetta da disabilità”, ma la disabilità si ha e basta».
VITA INDIPENDENTE
Quello della costruzione delle autonomie è il focus del Indi Mates – che si potrebbe tradurre con “amici indipendenti” per sottolineare che chi partecipa al progetto non lo fa come assistente professionale ma, appunto, come amico e questo è uno dei tasti sui cui Elena insiste di più. «Ho avuto l’occasione di andare a parlare in alcune scuole medie e superiori con ragazzi e ragazze molto più interessati e aperti degli adulti. Abbiamo affrontato temi come vita indipendente, abitare collaborativo e abbattimento delle barriere architettoniche», racconta.
Quello delle barriere architettoniche è un tema ovviamente fondamentale, ma che è già sul piatto da tempo, anche se secondo Elena si potrebbe fare di più, soprattutto nella sfera privata e quotidiana: «Sto cercando di rendere l’appartamento dove abito sempre più smart e domotico, abbiamo realizzato una piccola guida per chi vuole fare un progetto simile al nostro e in cantiere c’è anche l’idea di creare un’app per cercare coinquilini. Io non ho appoggi né sponsor, pago tutto di tasca mia. La cosa buona è che la pagina di Indi Mates ha un buon seguito, molti ci scrivono e raccontano che fanno cose simili. Il sogno è che arrivi anche un supporto a livello istituzionale perché è veramente importante».
PUNTI DI VISTA
Un aspetto che emblematicamente viene spesso relegato in secondo piano è lo spazio che si da al punto di vista della persona con disabilità. Il commento di Elena su questo tema ha un sapore agrodolce: «Spesso trovo più chiusura da parte di persone con disabilità che degli altri», confessa. «Quando ho lanciato la call per trovare coinquilini solidali, molti mi hanno scritto di pagarmi l’assistenza così “avrei risolto il problema”».
Molte persone con disabilità vivono la richiesta d’aiuto come un peso, «ma per me non è così. Capita che vada in vacanza con una mia amica e lei mi deve aiutare in tutto e questo spesso è oggetto di critiche; per me però è uno scambio, se gli altri hanno bisogno di aiuto lo do, se posso. Purtroppo molte persone disabili rimangono prigioniere dell’approccio assistenzialistico e riescono ad avere poche amicizie».
Tale approccio fra l’altro non è esente da falle. Ad esempio, Elena mi spiega che in Italia non è ancora riconosciuta la figura dell’assistente personale e quelle che esistono sono inquadrate come colf-badanti, che però sono tutta un’altra cosa, perché «anche le parole sono importanti» sottolinea Elena, che aggiunge: «Molto è a carico mio, io spendo un sacco di soldi perché ho un contributo veramente minimo, ci sono persone o famiglie che hanno spese ingenti e mi sto battendo per aumentare le garanzie rispetto all’assistenza di base».
CAMBIARE L’IMMAGINARIO
Il modo in cui ci figuriamo le cose plasma la realtà più di quanto possiamo immaginare ed è così anche per la disabilità. Elena mi fa un esempio lampante: «C’è molto da cambiare e uno dei sintomi più evidenti è la rappresentazione della persona con disabilità nei film o in TV, anche se spesso non ci si fa caso». In effetti quasi tutti i ruoli di persone con disabilità sono interpretati da attori e attrici che invece non hanno alcuna disabilità. La stessa Elena ne ha parlato circa un anno fa commentando il monologo di Maria Chiara Giannetta a Sanremo 2023, dove ha presentato il personaggio di Blanca, una detective cieca.
Ma le stigmate di una società abilista sono ovunque: siamo ancora pieni di barriere architettoniche, ci sono tanti problemi con l’assistenza, se una persona con disabilità fa un tirocinio viene pagata poco nonostante faccia più fatica delle altre. «Le cose inizieranno a cambiare solo quando le persone senza disabilità inizieranno a occuparsene», sostiene Elena, che porta l’interessante esempio di un gruppo di ragazzi senza disabilità che hanno creato un’app chiamata Weglad grazie alla quale chiunque può mappare le barriere architettoniche e segnalarle».
«Quello del lavoro è un tema complesso – commenta Elena in conclusione –, ho scelto di smettere di fare tirocini per persone con disabilità perché non mi sentivo valorizzata, anche economicamente, per l’impegno e il lavoro profusi. La politica previdenziale è carente e quella finanziaria pure, io per esempio non mi posso intestare una casa perché se risulto intestataria di un immobile mi calano il sussidio d’invalidità. E ancora, sono previsti incentivi per strumenti come PC o smartphone perché sono considerati ausili, ma per altri oggetti tipo una serratura smart per la porta di casa non è previsto nulla». Insomma, la strada è ancora lunga. E allora gambe – e ruote – in spalla!
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