Stupro di Catania, qual è il ruolo di noi giornaliste e giornalisti?
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Catania - Ancora una volta una notizia di stupro che procura dolore e sgomento. Ancora una volta una giovane donna vede il suo corpo e la sua anima violati e abusati. E ancora una volta ci si chiede come tutto questo sia possibile. Corpi che si trasformano in oggetti che marginalizzano la donna e la rendono sempre più spesso, purtroppo, vittima di violenze di ogni tipo.
Come reagire di fronte a tutto questo? Ha senso unirsi al racconto di tutti gli altri giornali per non aggiungere nulla se non risentimento e rabbia? Ce lo siamo chiesti come cittadini e cittadine e, soprattutto in questo caso, come giornalisti e giornaliste. E dopo un confronto abbiamo deciso che sì, avrebbe avuto senso, e non per non lasciare la redazione di Sicilia che Cambia estranea ai fatti, ma per comprendere meglio il nostro ruolo e quanto la comunicazione possa essere decisiva nel raccontare quanto accade intorno a noi.
Questa volta è successo a Catania, l’estate scorsa a Palermo, la prossima volta? Qualche giorno prima che la città etnea si vestisse di festa per celebrare l’amata sant’Agata, una tredicenne sarebbe stata violentata in pieno centro da due ragazzi, mentre gli altri tenevano fermo il fidanzato. Un branco di sette giovani tra i 15 e i 19 anni. Una dinamica molto simile a quanto accaduto a Palermo lo scorso luglio. “Nel caso di Catania la stampa ha tenuto a precisare l’origine egiziana dei ragazzi del branco, nel caso di Palermo si trattava di bravi giovani e la ragazza aveva bevuto un bicchiere di troppo”.
Appare evidente – questi sono solo due casi – come l’attenzione dal tema principale venga sviata completamente, fingendo nel caso di Catania, ad esempio, che sia un reato ancora più grave, come se già non bastasse, perché coinvolge gli immigrati. Un’informazione che presta il fianco a una certa politica per rafforzare posizioni di partenza già errate e scorrette. La Lega, ad esempio, non ha tardato a proporre la solita ricetta fatta di castrazione chimica, chiusura dei porti e rimpatri.
Dal caso di Giulia Cecchettin in molti speravano che, con tutta l’eco mediatica, qualcosa sarebbe cambiato. Forse sì, ma non nell’immediato. C’è un problema di fondo, fin troppo evidente, di educazione affettiva per cui bisognerebbe intervenire nelle famiglie e prima di tutto nelle scuole oltre che – come evidenzia la nostra Maria Enza Giannetto – nelle comunità che accolgono minori non accompagnati e rifugiati. Ma c’è anche un problema che riguarda come la comunicazione e il racconto di questi fatti di cronaca contribuiscono a radicare mentalità e ragionamenti che andrebbero invece completamente debellati.
Quante volte abbiamo visto “usare” il dolore di tutte queste donne come pretesto per avere facili consensi? Possiamo prestare il fianco a un uso così scellerato della parola e di una sofferenza che con tutta probabilità non troverà mai una fine? Il problema non è certamente il paese di origine, né il bicchiere di troppo, ma la violenza che viene compiuta ed è intrinseca nella cultura e nell’educazione che riceviamo.
Lo stupro è un problema grave della nostra società che va ben oltre quelli compiuti in strada, che accade nelle case prima ancora che fuori, quasi quotidianamente. La cultura dello stupro, la violenza patriarcale negli spazi pubblici, nei posti di lavoro, in rete, nei media, la sessualità tossica, il dominio sull’altro non solo riaffermano ancora una volta la subalternità delle donne, ma come più volte ribadito anche da associazioni come NonUnadiMeno, sono il presente da ribaltare a tutti i livelli.
Proprio a Catania il 5 dicembre scorso è stato sgomberato l’unico consultorio autogestito della città, punto di riferimento per molte vittime di violenza. Da allora le attività continuano grazie alla solidarietà di altre associazioni, ma da parte del Comune non è ancora arrivata una proposta di soluzione.
Quasi sempre gli stupratori vengono definiti come bravi ragazzi: anche nel caso di Catania, “nonostante fossero egiziani”, sono stati descritti come gentili e volenterosi, impegnati nel loro percorso di integrazione. Quasi mai abbiamo di fronte maschi da cui prendere le distanze o avere paura. Come mai? Sembra quasi un modo per decolpevolizzarli. Che siano immigrati o italiani, di buona famiglia, ricchi o poveri è arrivato il momento di cambiare toni e registri, di tralasciare una certa retorica e una cronaca che non serve a nulla. Lo dimostrano i fatti.
Abbiamo tutti bisogno di ispirarci a modelli virtuosi e di nutrirci di un’educazione affettiva e morale sana. Tutti e tutte, senza alcuna distinzione. Tutto questo mentre in Europa si discute sul reato di stupro che divide i 27 paesi. La proposta, avanzata dalla Commissione europea l’8 marzo 2022, vuole criminalizzare una serie di reati tra cui la mutilazione genitale femminile, la violenza online e lo stupro, che nell’articolo 5 viene definito come “qualunque costrizione a un atto sessuale non consensuale”. Gli Stati membri non hanno una definizione comune di reato di stupro sulla base dell’assenza di consenso.
Tra i paesi che chiedono che siano le vittime a dover dimostrare l’uso della forza o della minaccia – e quindi si rifanno a una definizione specifica di stupro lamentando l’assenza di una base giuridica per queste nuove regole – ci sono Francia, Germania, Polonia e Ungheria. Questo tradirebbe le disposizioni della Convenione di Istanbul costituendo un rischioso passo indietro per la tutela delle donne, colpevolizzando la vittima invece di concentrarsi sull’aggressore.
L’unica buona notizia, se così si può definire, in tutto questo caos, è il coraggio che questa ragazzina di Catania ha avuto: la sua denuncia immediata ha permesso alle forze dell’ordine di trovare il branco in meno di 48 ore. È un segnale importante su cui anche la stampa dovrebbe soffermarsi e che invece sembra restare in superficie. Vuol dire che le donne stanno cominciando a prendere una posizione, a dire basta, a non sentirsi più sole. Sarebbe il caso che lo facessero anche alcuni uomini. Se accadrà – e mi auguro di sì – sarà dipeso anche da noi, dalle nostre parole, dai nostri racconti e dalla voglia di liberarci da una cultura patriarcale che, pur senza volerlo, continua a condizionarci.
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