Viaggio nel carcere sardo tra innocenti in cella per 30 anni e diritti sospesi
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«Non sono l’unico, ci sono altri innocenti nelle carceri, chi avrà voglia di leggersi le carte troverà la verità». È trascorso un giorno dalla sua scarcerazione e Beniamino Zuncheddu, libero dopo trentatré anni di carcere da innocente, richiama l’attenzione sulle vite degli altri. Dal 1991 al 2022 i casi di errori giudiziari hanno coinvolto 30mila persone, quindi 961 cittadini all’anno in manette. Persone che subiscono una custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte, o che dopo essere condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a processo di revisione. Il tutto per una media di poco meno di 29 milioni e 200mila euro l’anno tra indennizzi e risarcimenti.
Ma la sofferenza che può nascere dalla reclusione ingiusta va purtroppo contestualizzata nel quadro già preoccupante che emerge dalle carceri sarde. Mancano educatori – in Sardegna ci sono 43 detenuti per educatore –, attività formative e, specie se si parla dei problemi di salute mentale dei detenuti, le figure di supporto nelle carceri non sono sufficienti e i percorsi di cura, difficilmente accessibili. Per la Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Irene Testa, le carceri «sono i nuovi manicomi». Ma andiamo per gradi.
Più tempo in carcere che da uomo libero. Come è stato possibile un caso Zuncheddu?
Purtroppo è possibile e non è un caso limite, nel senso che i dati ci dicono che di Beniamino ce ne sono tanti. Nel caso Zuncheddu le carte anche senza arrivare al processo di revisione già erano chiare, era evidente dall’inizio che c’era qualcosa che non tornava. Zuncheddu aveva un alibi, non poteva fare una strage del genere, tutti erano concordi sul fatto che non poteva essere un uomo solo, il testimone non aveva la possibilità di vedere ciò che disse di aver visto; molto probabilmente con maggiori approfondimenti non ci sarebbero state tre condanne.
C’è stato inoltre anche un depistaggio: si è fatto in modo che le indagini preliminari andassero in quella direzione, determinando una marea di ingiustizie e errori. Zuncheddu in qualche modo è stato vittima di un complotto durato trent’anni perché serviva un capro espiatorio.
Viene naturale pensare se possa mai esistere un reale risarcimento per tutto ciò.
Quei 33 anni nessuno potrà mai risarcirli, ma ancora più grave è che Zuncheddu è un uomo che entra a 26 anni in carcere e ne esce a 60. Lo Stato con lui ha sbagliato, gli ha rubato tutto, lo ha spogliato della vita e oggi lui forse dovrà aspettare anni per ricevere un risarcimento per quello che è successo.
Perché poi c’è anche questo: il procedimento non è automatico come dovrebbe essere, anche il Legislatore dovrebbe affrettarsi e impegnarsi per dare, se non subito un risarcimento, almeno un pre risarcimento. Per un semplice motivo: per consentire di vivere. Beniamino vive un’ingiustizia nell’ingiustizia, perché non è possibile che un uomo esce dal carcere dopo 33 anni e si ritrovi a dover chiedere supporto perché senza reddito. Credo che questa sia una vergogna assoluta.
Tra le prime dichiarazioni rilasciate c’è stata quel netto «voglio curarmi, perché sto troppo male». Come si sta dopo trent’anni in carcere da innocente?
Zuncheddu ha vissuto più in carcere che fuori quindi il suo mondo è ancora lì. Fa molta fatica a staccarsi da quei ritmi. Si porta gli strascichi di un carcere che l’ha ridotto malissimo, basta guardarlo per capire cosa può fare il carcere a una persona. Il carcere dovrebbe riabilitare non restituire persone incattivite o che non sono più in grado di fare niente perché hanno trascorso la vita in una branda ventiquattr’ore al giorno.
Quando abbiamo modo di chiacchierare quello che sottolinea sempre è di salutare i detenuti, vuole sapere come stanno e mi chiede di andare spesso in carcere. La sua attenzione è rivolta a quel mondo e mi dispiace che dopo l’assoluzione il caso sia stato trattato come un trionfo della giustizia: non si può dire così, è un fallimento, un’ingiustizia durata 33 anni. Certo, i giudici hanno lavorato bene ma un cittadino italiano non può avere paura della giustizia: se arriva dopo 33 anni non è buona.
Ampliando lo sguardo, il carcere dovrebbe avere la funzione appunto di riabilitare, affiancare la persona, eppure i dati ci descrivono un quadro di sovraffollamento e scarsissimi servizi. Com’è quindi la situazione nelle carceri?
Si vive una situazione in cui il diritto è sospeso. In carcere dovrebbe entrare la persona, invece spesso entra il reato. Da noi in Sardegna sono poche le strutture vecchie, sono quasi tutte nuove, ma di fatto sono solo contenitori. All’interno c’è poco trattamento [l’insieme di interventi rieducativi che gli operatori penitenziari propongono di attuare nei confronti delle persone detenute, ndr] per le persone, poco personale di penitenziaria, pochi educatori, pochissimi medici e psichiatri. Il tutto con una popolazione che tra l’altro è prevalentemente malata, con un disagio psichiatrico che colpisce più del 40% della popolazione.
Di fronte a una situazione del genere niente di buono può avvenire: gli operatori spesso cercano di fare sempre meglio, impegnandosi con corsi o iniziative, ma non basta. Se in una struttura di 600 persone solo 50 riescono a seguire il percorso di recupero, è un fallimento. Il carcere dovrebbe far lavorare il detenuto, riempirlo di attività da fare, seguire percorsi e avere opportunità di recupero. Diciamo che prevalentemente l’attività principale al momento è invece stare tante ore sdraiati in una branda in celle sovraffollate. Davanti a tutto questo ne vien fuori che il carcere è inutile, non adempie alla sua funzione istituzionale.
Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un’inchiesta sulle carceri sarde che si focalizza sul diritto alla salute delle persone detenute, su quando è direttamente negato o quando invece caratterizzato da ostacoli burocratici e strutturali che ne impediscono la piena garanzia di accesso. Una situazione che diventa ancora più complessa se ci si concentra invece sulle persone con problemi di salute mentale.
Sì, i detenuti con disagio psichiatrico sono veramente tanti, alcuni non dovrebbero neanche stare dentro un carcere anche perché non è possibile curarli e per legge dovrebbero ricevere assistenza in altre strutture. Noi abbiamo con le carceri i nuovi manicomi, stiamo parlando di persone fragili alle quali il chiuso di una cella rende tutto difficile. Ci sono pochi psicologi, pochissimi medici e psichiatri, e l’esito è un malessere generale.
Anche il numero di suicidi è un campanello d’allarme sulla situazione. Se ci fosse un carcere più attento, basterebbero anche solo più telefonate, permettere di coltivare di più gli affetti, e invece questi aspetti oggi sono concessi col contagocce. Eppure non ci sarebbe niente di male, non verrebbe meno la pena consentendo più colloqui, invece si continua a tenere il detenuto in una condizione di afflizione. E a cosa porta tutto questo? A perdere la speranza.
Probabilmente sarebbe utile anche parlare di più del carcere e non vederlo come una realtà separata, sulla quale non informar. Quali sono le prossime azioni che porterà avanti in qualità di Garante?
Farò un giro col Garante nazionale delle carceri a breve, perché vorrei che conoscesse la realtà delle carceri sarde, molto particolare anche rispetto al resto del territorio nazionale. Qua circa la metà dei detenuti non è sarda, c’è il problema della detenzione in regime di alta sicurezza o 41bis che è esagerata anche rispetto al fatto che vengono mandati quasi tutti in Sardegna, con tutto quello che poi può comportare. I parenti sono costretti a viaggi della speranza per raggiungere l’Isola e bisognerebbe capire dal punto di vista scientifico quanto concentrare un così alto numero di detenuti possa rappresentare un pericolo per il territorio.
Mi chiedo se non sarebbe stato meglio ridurre il numero di queste persone che scontano una pena fuori dal loro territorio; parallelamente si potrebbe investire maggiormente sulle colonie penali agricole, dove le persone lavorando la terra o si occupano degli animali. Penso che la Sardegna debba ripensarle, tararle con le esigenze del territorio e valorizzarle come modello di detenzione.
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