“Allenarsi a pensare” per contrastare i femminicidi e la violenza di genere
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Bologna, Emilia-Romagna - È novembre dello scorso anno quando l’Italia viene attraversata da un’ondata di manifestazioni, proteste e una generale indignazione. Il motivo scatenante è l’omicidio di Giulia Cecchettin, ma il dibattito presto si allarga all’ampio tema dei femminicidi e del patriarcato. È sempre novembre quando inizio con una classe quarta di un istituto tecnico di Bologna un breve ciclo di laboratori, che ragazzi e ragazze scelgono di dedicare al tema delle relazioni tra esseri umani.
Alla seconda lezione entro in una classe deserta. Chiedo a una ragazza in corridoio dove sono tutti, mi risponde: «Prof, siamo in cortile, c’è una commemorazione per Giulia, tra poco rientriamo». Io un po’ esulto. Loro ancora non lo sanno, ma il laboratorio che stiamo per affrontare ha come tema proprio la gelosia. Mi dico che il dibattito sarà interessante, che, con questa esperienza collettiva appena vissuta, la riflessione si arricchirà di sfumature e dettagli.
La classe rientra e io chiedo di raccontare un episodio vissuto in prima persona che potesse rappresentare appieno il concetto della gelosia. Alcuni raccontano dell’arrivo dei fratelli più piccoli, dell’amore dei genitori da dividere, altri di litigi con gli amici per il titolo di “Migliore Amico” – a quanto pare un titolo ambito.
Uno tra gli altri attira però da subito l’attenzione della classe, le facce sono perplesse mentre una delle ragazze racconta: «Prof, a me viene in mente una cosa che è successa a una mia amica. Praticamente aveva litigato su whatsapp con il suo ragazzo. Lei ha chiesto un paio di giorni di pausa per pensare al litigio e decidere cosa fare con la relazione, lui ha continuato a mandarle messaggi, allora lei lo ha bloccato. Lui in tutta risposta ha preso la macchina e dopo un’ora di strada si è presentato sotto casa di lei con lo scopo di chiarire e mandare avanti la relazione».
La classe si agita, alcuni dicono che la ragazza non ha capito la mia domanda, che quello non è un buon episodio per spiegare la gelosia. Chiedo perché non funziona, mi dicono: «Prof, ma il gesto del ragazzo è un gesto romantico! Non da geloso!». Allora formulo chiaramente la domanda e chiedo: «Forse non ci aiuta a chiarire il concetto di gelosia, ma iniziamo dalla base. Secondo voi il gesto del ragazzo è un gesto romantico o violento?». Quasi nessuno sostiene che il gesto sia violento. Nel racconto il “no” della ragazza è chiaro e lascia poco spazio all’interpretazione, ma quasi nessuno lo nota.
Nei loro resoconti c’è la fatica di guidare per un’ora, l’obiettivo del ragazzo di chiarire, di mettere la relazione sopra a tutto; nel comportamento di lei c’è egoismo, immaturità, il tentativo di sfuggire al confronto: «Prof, ma se lei non vuole chiarire, sbaglia lei!»; «Ma nei film si vede continuamente!»; «Prof ma quella ragazza voleva solo fare la preziosa, farsi riconquistare». Solo due ragazze in classe notano che ogni no è no, che bisogna rispettare le scelte degli altri anche quando ci fanno soffrire.
Ciò che i ragazzi vedono in questo episodio mi ha colpito e fatto riflettere: mi chiedevo come fosse possibile che, appena dopo un’assemblea convocata per ricordare una delle vittime di femminicidio, non fossero stati in grado di vedere quel no. L’episodio non è importante in sé, ma restituisce un’immagine interessante della percezione che abbiamo collettivamente di ciò che viviamo. Mi sono chiesta molte volte cosa fosse successo e la elaboro ora, con queste poche righe, legandola, di nuovo, alla mia esperienza.
Durante la scuola secondaria di I e II grado ho seguito personalmente alcuni percorsi sulle violenze di genere che avevano l’obiettivo di prevenirle. Questo non mi ha impedito di trovarmi dieci anni dopo in una relazione in cui sono state messe in atto violenze psicologiche di genere. Le coetanee di mia sorella, otto anni più tardi, hanno seguito altri percorsi con i medesimi obiettivi e la maggior parte di loro vive oggi relazioni personali in cui, con gradi più o meno gravi, subiscono violenza di genere.
Mi è sempre sembrato di essere un soggetto consapevole, di essere stata informata ed educata, di avere tutti gli strumenti per evitare quell’esperienza nella mia vita, mi sono sempre pensata pari all’uomo dal punto di vista intellettuale e pratico. Non mi sono nemmeno mai posta davvero il problema del femminismo e non mi sono sentita un soggetto oppresso crescendo. Eppure lo sono stata per tutto il tempo. Sono sempre stata un soggetto marginale in una società patriarcale, ma non l’ho visto accadere.
Solo anni dopo, già entrata nel mondo del lavoro, ho iniziato ad accorgermi di tanti piccoli dettagli che sono poi i fili invisibili con cui le pratiche culturali lavorano. Le trame di ciò che determina l’oppressione sono infinitamente intrecciate, sottili, invisibili. Si nascondono nelle parole che usiamo senza riflettere, nelle azioni quotidiane che incarniamo automaticamente, si nascono nei film che vediamo, ma soprattutto nel modo in cui interpretiamo la nostra vita.
Mi è bastato nascere soggetto oppresso per capirlo? No. Mi è bastato vedere proiettato sulla lavagna dell’istituto il “circolo della violenza” con il quale due assistenti sociali ci hanno spiegato che prima di arrivare a ucciderti gli uomini violenti ti regalano fiori e cioccolatini per scusarsi delle sberle? No. La risposta che mi do è allora che, in concomitanza al nascere posizionati così e così, deve essere alimentato un pensiero critico capace di disfare le trame sottili delle pratiche che abbiamo in comune. Pratiche che, tanto più lavorano nell’ombra, tanto più diventano pericolose.
Uno dei metodi educativi possibili è allora un metodo non contenutistico, in cui il tema di discussione venga portato all’attenzione in modo aperto al confronto e al dialogo, al dubbio e alla domanda. Portare in classe lezioni di difesa personale, schemi su come si struttura la violenza di genere tra le mura domestiche e in generale contenuti che sembrano testimoniare tesi femministe può essere utile, ma non risponde all’obiettivo generale di modificare quel sistema di pratiche che alimentano queste piaghe sociali.
I modelli che spiegano il comportamento degli uomini violenti inibiscono il pensiero perché in questo modo forniamo risposte a domande che non sono mai state formulate, non sono state vissute o pensate. Tali modelli sono sicuramente utili in sede accademica per spiegare e descrivere un certo comportamento, capire di più della natura della violenza e dei valori che in essa vengono espressi, ma non è questo quello che cambia la vita alle persone.
Se qualcuno mi mostra lo schema della violenza posso comprenderlo, ma esso è uno schema slegato da quello che vivo e ogni volta dovrò chiedermi: “Questa cosa che vedo ora, rientra in quella categoria oppure no?”. Chi è allenato alla categorizzazione sa bene come ogni volta che ci proviamo i bordi tra categorie diventano confusi: spesso gli oggetti appartengono contemporaneamente a più categorie e suddividerli in modo chiaro è impossibile.
Quello che davvero ci aiuta è allenare la nostra predisposizione naturale a farci una domanda nello specifico: “Cosa sta accadendo ora?”. Una domanda, questa, di incredibile potenza filosofica, a mio parere, perché è rispondendo a questa domanda che alleniamo la capacità di concettualizzare a partire dall’esperienza vissuta. Ed ecco perché in questo contesto le pratiche filosofiche sono centrali: concettualizzare a partire dall’esperienza è una capacità che può essere allenata ed è uno di quegli esercizi che ancora troppo poco facciamo come comunità umana.
Certo, avrei potuto quel giorno dare la mia risposta – non certo l’unica possibile – durante il dialogo, fermare il confronto e dire: «No ragazzi se qualcuno vi dice no, ci si ferma, c’è poco da dire». Ma credo che allenarsi a pensare significhi non avere le risposte e sforzarsi di formularle. Se non siamo allenati a farlo, non abbiamo nessuno strumento per difenderci. Abbiamo solo instabili coordinate culturali, concetti vuoti e commemorazioni che non servono a nulla. Allenarsi a pensare e concettualizzare è fondamentale non solo per prevenire la violenza di genere, ma per essere consapevoli, scegliere davvero e accorgersi di quanto si vive. E la verità è che essere capaci di discernimento, salva la vita. La salva letteralmente.
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