La Taranto libera e pensante di Michele Riondino: Palazzina Laf è uno specchio in cui riconoscerci
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Taranto, Puglia - Taranto, anni Novanta. Caterino Lamanna (Michele Riondino) è un operaio siderurgico che lavora all’Ilva, abita in una masseria fatiscente e sta per sposarsi con Anna. Una vita come tante da queste parti, finché il dirigente dell’azienda Giancarlo Basile (Elio Germano) lo convince a diventare una spia. Per farlo bastano una vecchia auto usata e la promessa di fare carriera. E pensa di aver fatto un colpaccio, Caterino, che viene trasferito di reparto e mandato nella Palazzina Laf – acronimo di laminatoio a freddo che dà il nome al film – dove crede di lavorare di meno e meno duramente. E invece quello è il reparto-lager dove vengono spediti i lavoratori scomodi.
È questa la storia che Michele Riondino ha scelto per il suo esordio alla regia. Il primo caso di mobbing in Italia, avvenuto nell’acciaieria della sua città. Una storia ispirata al lavoro del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, che avrebbe dovuto partecipare alla sceneggiatura se solo non fosse venuto a mancare prematuramente. I fatti narrati sono frutto di interviste a ex lavoratori Ilva ed ex confinati o tratti dalle carte processuali che hanno determinato la condanna degli imputati e il risarcimento delle vittime. Raggiungo Michele Riondino mentre è alle prese con un forsennato tour di presentazioni del film, è stanco ma soddisfatto.
Michele, perché hai scelto proprio questa storia?
Questa è una storia che appartiene a tante altre storie, la storia di Taranto e del rapporto con l’acciaieria è ormai un libro, anzi un’enciclopedia. Raccontare la Palazzina Laf può essere utile soprattutto a chi non mastica bene l’argomento, per capire la genesi del problema tarantino, per approfondirne il tema centrale: il ricatto. Noi come popolazione siamo ormai vittime di un ricatto che va avanti da decenni. E per raccontare il ricatto a cui siamo costretti come cittadini di Taranto ho voluto utilizzare la storia di un ricatto ai danni dei lavoratori.
Italia che cambia pratica il giornalismo costruttivo, in altre parole raccontiamo la complessità e mi pare che sia esattamente quello che fai tu con questo film. Accendi la luce sulla complessità dell’Ilva per andare oltre la riduzione dei diritti al dualismo salute-lavoro.
Sai, oggi si semplifica troppo l’argomento parlando della scelta dei diritti tra salute e lavoro, ma il problema è che in tutti questi anni il ricatto a cui è stata costretta la mia città ci ha impedito di immaginare un futuro distante da quella fabbrica. E allora ho pensato che questa storia poteva essere emblematica. Oggi i confinati siamo tutti noi, una città intera: 4500 cassaintegrati che vengono tenuti a casa senza far nulla, perché sono in cassa integrazione da più di dieci anni e non hanno un ruolo nell’attività sociale.
A quale ricatto sono stati sottoposti i lavoratori dell’Ilva che racconti nel tuo film?
Sono stati costretti a scegliere se firmare o no una lettera di novazione – una clausola contrattuale che li avrebbe declassati da lavoratori altamente specializzati a operai semplici – e quindi ad accettare o no un declassamento. Veniva chiesto loro di smettere di essere ingegneri o informatici per diventare semplici operai, di rinunciare alle proprie competenze per ricoprire un ruolo in cui non avevano nessuna competenza.
Dividi e impera, un grande classico. Cosa ha significato questo ricatto nella vita dei lavoratori?
Dal punto di vista degli operai questa rinuncia era un motivo per detestare gli impiegati. Pensavano che fosse dettata da un pregiudizio contro di loro, ma in realtà questi lavoratori non accettano di diventare operai perché non ne hanno le competenze. Lo dice anche un personaggio del film: “Io non ho le competenza per stare in acciaieria!”. E questo dimostra la spregiudicatezza del proprietario, di Riva, nell’usare questi lavoratori per fare il suo comodo, ma racconta anche di operai come Caterino Lamanna che sono disposti a vendere sé stessi, la propria dimensione di lavoratore e i propri compagni.
Quello che racconti può succedere quando c’è il terreno infertile della solidarietà, quando – specie nelle città del Sud – vince la rimozione della Storia. Taranto è diventata sinonimo di acciaieria, come se non avesse una storia infinitamente più grande e complessa… È recuperabile questa specie di perdita d’identità?
Noi ci stiamo riappropriando della nostra identità. Dal 2012 a oggi l’attivismo tarantino, le associazioni che sono nate e il dibattito che si è creato intorno all’acciaieria hanno dato a buona parte della società civile la possibilità di riconoscersi nella nostra storia. Le nuove generazioni – a differenza delle precedenti, inclusa la mia – non dipendono più dalla grande industria. I genitori dei ragazzi di oggi non sperano più nel posto fisso per i loro figli, come invece i nostri genitori facevano per noi.
Quindi ci stiamo inevitabilmente e fortunatamente riappropriando della nostra dimensione storica. Ormai da un decennio, a Taranto c’è un’opinione pubblica che si alimenta di buoni propositi. La stretta del ricatto di cui parlavamo prima è meno soffocante, adesso riusciamo a immaginare un futuro senza quella fabbrica.
E forse è proprio questo il problema…
Questo è il vero problema dell’industria e di un certo tipo di capitalismo: una società civile che si riconosce la capacità di creare altri volani economici, non più legati all’acciaieria. Il Primo maggio a Taranto e gli eventi culturali, per esempio, stanno contribuendo a dare alla città il modo di abbandonare l’idea della fabbrica come tutto. Questo è imperdonabile agli occhi dei cosiddetti poteri forti che invece ci vorrebbero ancora costretti a sottostare al ricatto. Taranto è una città che sta rinascendo.
Spesso i popoli e la società civile sono migliori delle loro classi dirigenti, la tua denuncia è chiarissima: denunci la ferocia del capitalismo ma il tuo film chiama alle loro responsabilità anche i sindacati e una sinistra che hanno smarrito la bussola, spesso subalterni a quel sistema.
Ma certo! Nel film c’è la volontà di denunciare l’assenza della sinistra. C’è un problema di identità nel mondo della sinistra, oggi le strade tra lavoratori e sindacati trovano il loro punto di distacco, ma questo allontanamento si è cominciato a consumare proprio negli anni della Palazzina Laf quando, per esempio, si è scelto di difendere gli operai ma non gli impiegati.
Da parte della sinistra e dei sindacati c’è un’incapacità di leggere gli eventi ed è questo che noi rimproveriamo alla sinistra: la gestione del bene comune dovrebbe essere la bandiera della sinistra e invece non lo è più. Cerchiamo sempre un dialogo con la parte politica che dovrebbe rappresentarci ma è quella parte politica che non vuole parlare con noi.
Nel film, così come adesso nelle tue parole, emerge l’esigenza di tornare a mettere al centro il valore del dissenso. Se la libertà di un popolo si misura dalla sua capacità di dissentire, questo vale ancor di più quando dissentire è démodé e la stragrande maggioranza si piega alla volontà dominante.
Il mio essere attivista rispetta esattamente quello che dici, io manifesto il mio dissenso prendendo parte alle manifestazioni e ai processi di dialettica con le parti in campo. I miei scontri con Maurizio Landini e il sindacato, con il Partito democratico, con il sindaco di Taranto, sono figli di questo dissenso. Ma il dissenso oggi viene usato per sminuire la nostra opinione. Da attivista non ho fatto altro che sentirmi dire di non conoscere la materia, sindacati e sinistra mi hanno sempre lanciato l’invito a non occuparmi di qualcosa di cui non ho le competenze, come se io non avessi gli strumenti e il ruolo per poterne parlare.
Ma io sono un cittadino di Taranto che guarda e vede che succede, sminuire la mia opinione significa ridurre la democrazia, la libertà di pensiero, di dibattito e dialettica. Continuare a dirci che siamo fumo negli occhi, che usiamo il dissenso come polemica per per trovare spazio negli organi mediatici è sbagliato innanzitutto perché non permette di affrontare il tema. Perciò questo film è un invito a conoscere e confrontarsi.
Un invito impossibile da non raccogliere. Nonostante la tragicità del racconto, tu ed Elio Germano riuscite a farci sorridere, complice un registro tragicomico perfettamente riuscito. È una storia meridionale, ma di interesse come minimo nazionale…
I personaggi danno modo di vivere una sorta di autoanalisi, soprattutto ai tarantini. Perché tutti noi abbiamo vissuto il rapporto con questo tipo di operaio, di identità e personalità. A Taranto si è consumato un esperimento sociale che sta dando i suoi frutti: siamo ineducati al bene comune e quindi non abbiamo più la capacità di valorizzare la casa in cui abitiamo, la fabbrica in cui lavoriamo, la strada che percorriamo, siamo inabili a tutelare noi stessi e l’ambiente che ci circonda.
È diventato straordinario, nel senso di fuori dall’ordinario, avere cura di noi stessi perché è diventato normale convivere con la malattia, con l’inquinamento. È diventato tutto normale. Questo è un esperimento sociale che dovrebbe interessare l’Italia intera perché quando si dopa l’opinione pubblica e si concede il lavoro come se fosse un regalo, quando un cittadino è abituato a considerare il lavoro come un dono calato dall’alto, a quel punto a quel cittadino puoi fare tutto e non avrai da lui né dissenso né fastidi. Caterino è esattamente quel cittadino.
Molte recensioni al tuo film fanno riferimento ai grandi capolavori del cinema impegnato, come Mimì Metallurgico della Wertmuller o Lulù Massa di Petri e Pirro in La classe operaia va in paradiso. Personalmente ti ho sempre associato a un certo cinema “alla Gian Maria Volontè”, che concepiva il cinema «come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione». E per Michele Riondino cos’è il cinema?
Non lo so [prende tempo, riflette a lungo, ndr]. Sono molto legato a quel tipo di tradizione di cinema italiano, ho formato la mia personalità artistica e soprattutto politica su un certo tipo di letteratura e di arte che si occupa della politica. L’arte è politica perché interpreta la realtà, dà una lettura soggettiva di un fatto oggettivo. E noi apprezziamo l’arte quando la riconosciamo. Per me l’arte che non interpreta la vita è semplicemente un esercizio di masturbazione, cosa che può piacere ma che non ritengo utile. Al pari delle altre arti, il cinema rispecchia la realtà e invita alla riflessione. Ecco, il cinema deve essere lo specchio in cui possiamo riconoscerci, anche se portiamo la maschera.
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