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Nel giugno del 2022 una notizia accompagna la visita ufficiale in Sardegna dell’allora ambasciatore di Israele in Italia Dror Eydar. “Nell’alta Galilea è emersa una città con elementi architettonici riconducibili a quelli nuragici che dimostrerebbero la presenza di popolazioni sarde”, annuncia L’Unione Sarda. Negli incontri con i rappresentanti delle istituzioni isolane si parla infatti non solo di collaborazione tecnologica tra Sardegna e Israele nei settori agroalimentare, energetico e turistico, ma anche di archeologia.
L’ambasciatore in visita riferisce i risultati di recenti scavi nel sito di El Ahwat, nel nord di Israele: secondo gli archeologi responsabili degli studi, i reperti rivelerebbero un insediamento risalente alla prima Età del Ferro, costruito e abitato da popoli nuragici. Nello specifico, si tratterebbe degli “Shardana” dei testi egizi sui Popoli del Mare. La notizia viene ripresa dai principali media sardi, che continuano, anche nei mesi successivi, a dedicare approfondimenti ai presunti rapporti archeologici tra Sardegna e Israele. Ma in realtà questa interpretazione delle vicende storiche del sito è ben lontana dall’essere accettata dalla comunità accademica internazionale.
SUI PRESUNTI LEGAMI TRA SARDEGNA E ISRAELE
El Ahwat è stato oggetto di diverse campagne di scavo fin dai primi anni ‘90, coordinate dall’archeologo israeliano Adam Zertal, anche in collaborazione con l’Università di Cagliari, con il professor Giovanni Ugas. Molte delle interpretazioni di Zertal sui reperti archeologici rinvenuti in questi scavi sono state accolte con scetticismo fuori da Israele.
Zertal sosteneva infatti che El Ahwat fosse stata costruita e abitata da una guarnigione di mercenari Sherden (o Sherdana), membri della temuta coalizione dei Popoli del Mare che invase il Mediterraneo orientale sul finire dell’Età del Bronzo. Ciò che a noi interessa è che Zertal accettava la teoria secondo cui gli Shardana erano sardi – nello specifico, di epoca nuragica – sostenuta nel mondo accademico sardo soprattutto dal professor Ugas. Centrale nell’idea di un’origine sarda dei suoi abitanti sono proprio gli elementi architettonici di El Ahwat, che presenterebbero somiglianze con l’architettura nuragica.
In realtà, l’identità degli Sherdan è ancora molto dibattuta in ambito accademico e non c’è consenso su una loro origine sarda. Per archeologi come Giacomo Cavillier e Alfonso Stiglitz, mancano le prove archeologiche per poter stabilire con certezza se questi abili marinai avessero viaggiato dalla Sardegna o se provenissero dal Mediterraneo orientale. C’è anche chi, come il ricercatore in preistoria e archeologia egea dell’Università di Harvard Jeffrey Emmanuel, mette in dubbio proprio la datazione di El Ahwat e ritiene che i testi egizi usati da Zertal non siano sufficienti a confermare la presenza degli Sherdan in Israele, né l’architettura del sito a dimostrare legami con la Sardegna.
TRA FONTI STORICHE E RACCONTI BIBLICI
Fino a qui, El Ahwat potrebbe essere semplicemente uno dei tanti casi in archeologia in cui non si è ancora raggiunta una teoria che metta d’accordo tutte le esperte e gli esperti. Come vedremo, però, la narrazione intorno a questo sito mostra una realtà molto più problematica di un semplice dibattito accademico. Il punto più controverso della teoria di Zertal è infatti l’identificazione di El Ahwat con la fortezza in cui alloggiava “Sisera”, comandante dell’esercito del re di Canaan secondo il Libro dei Giudici della Bibbia. L’archeologo sosteneva che questo personaggio fosse in realtà di origini sarde – nello specifico (per assonanza) della città di Sassari – e che guidasse una guarnigione di guerrieri Shardana.
È facile capire perché questa teoria sia stata accolta con scetticismo dalla comunità accademica. Sisera è un personaggio biblico; ed essendo la Bibbia un testo sacro, non storico, la veridicità degli avvenimenti e dei personaggi raccontati deve essere storicamente provata. La branca dell’archeologia che si occupa di verificare, tramite ricerche sul campo, che gli eventi narrati nella Bibbia siano effettivamente avvenuti si chiama “archeologia biblica”; ma in Israele accade spesso che la Bibbia venga usata in modo strumentale come testo storico per interpretare le scoperte archeologiche.
ARCHEOLOGIA PER LEGITTIMARE L’OCCUPAZIONE DELLA PALESTINA
L’archeologia israeliana è impegnata in uno sforzo per dimostrare non solo che nelle Età del Bronzo e del Ferro esisteva un regno “ebraico” in quell’area del Medio Oriente, ma che quel regno era importante e prospero così come raccontato nella Bibbia. È importante sottolineare che l’uso politico dell’archeologia da parte di Israele è una realtà ormai riconosciuta e avviene tanto dentro i confini dello Stato quanto nei territori palestinesi che Israele occupa militarmente, cioè quelli in cui risulta come “potenza occupante” secondo la Corte Internazionale di Giustizia, l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU: Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est.
L’illustre storico Ilan Pappé in Dieci miti su Israele racconta come l’archeologia è stata usata fin dal 1948 per legittimare l’occupazione dei territori palestinesi e l’istituzione dello Stato ebraico: «Un comitato speciale formato da “archeologi biblici” entrava [nel villaggio palestinese distrutto] e determinava quale fosse il nome [ebraico] di quel luogo ai tempi biblici» procedendo poi «a stabilirvi un insediamento con il nome biblico appena recuperato. In questo modo il progetto sionista poteva essere presentato non come una “occupazione” ma una “liberazione” di quelle terre».
Il concetto del “diritto al ritorno” del popolo ebraico alla Terra Promessa è centrale nell’ideologia che regge lo Stato di Israele. È di poche settimane fa il post dell’account ufficiale dello Stato ebraico sul social X che recita: “Israele è l’antica patria del popolo ebraico, e niente potrà cambiare questo fatto” con riferimento a una stele datata 3.000 anni fa su cui apparirebbe il nome di David, re biblico di Israele. La cui esistenza storica non è però mai stata provata.
IL CONTROLLO DI ISRAELE SULL’ARCHEOLOGIA
Le stesse argomentazioni vengono usate per rivendicare i medesimi diritti sui territori della Palestina occupata. Un report del 2017 delle ONG israeliane Emek Shaveh e Yesh Din descrive il controllo assoluto di Israele sulla gestione di scavi, reperti archeologici e relative pubblicazioni scientifiche nell’area C della Cisgiordania, in violazione delle leggi del diritto internazionale. Questo controllo illegale, rivendicato da Israele stesso, garantisce il monopolio della narrazione sulla storia passata della Palestina.
In una situazione come questa, anche lo studio del sito di El Ahwat non può essere neutrale. Prova del suo significato politico è la centralità delle presunte scoperte archeologiche nei discorsi dell’ambasciatore Eydar con diversi rappresentanti delle istituzioni sarde: l’obiettivo è “stabilire un rapporto diretto tra Israele e Sardegna”, come scrive La Nuova Sardegna, “con un occhio di riguardo al legame archeologico che avvicinerebbe i progenitori di Re Davide ai guerrieri nuragici”.
UN LEGAME NON PRIVO DI IMPLICAZIONI
Le conseguenze di questo avvicinamento tra le istituzioni sarde e lo Stato ebraico vanno ben oltre quelle economiche quando si mette in mezzo l’archeologia. La storia di El Ahwat è così raccontata come storia “di Israele” e non dei tanti popoli che hanno vissuto in quelle terre, come quello palestinese. L’idea di fondo promossa è in linea con la propaganda sionista, secondo cui esiste una continuità storica tra i presunti regni ebraici della protostoria levantina e lo Stato di Israele proclamato nel 1948.
In questo modo ebrei di tutto il mondo possono considerarsi, proprio in virtù della professione di fede, discendenti degli antichi abitanti dei biblici regni di Israele e Giuda. Dunque – secondo la propaganda sionista – legittimi eredi di quelle terre. Rifiutata categoricamente da tanti ebrei anti-sionisti, questa manipolazione dell’archeologia a fini politici ricalca altre imprese coloniali: come quelle dell’Italia fascista, dove gli scavi di siti romani venivano usati da Mussolini per sostenere che il popolo italiano avesse il diritto storico di occupare terre in Libia.
Davanti alle 22 mila persone uccise a Gaza, è ancora più urgente che il mondo accademico sardo riconosca il ruolo politico dell’archeologia nel progetto sionista e ne prenda le distanze. Il rischio altrimenti è che l’archeologia sarda finisca per legittimare, o addirittura contribuire, alla manipolazione del passato che supporta le quotidiane violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte dello Stato di Israele. E, così facendo, perda essa stessa credibilità nel ricostruire le vicende storiche nostrane.
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