Da pastori a cowboys, il passo è breve: come l’allevamento è cambiato in Sardegna
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Circa quindici anni fa mi occupavo di certificazioni bio e facevo ispezioni nelle aziende agricole. Ricordo che visitavo tanti allevatori di pecore da latte che pascolavano sul Gennargentu, sui versanti di Desulo, Arzana e Villagrande in particolare. Alcuni di loro facevano ancora la transumanza perché in certe zone d’inverno non era possibile il pascolo.
Si trattava di aziende che producevano latte di altissima qualità, alcuni facevano formaggio con il latte delle pecore che pascolavano tra i 1000 e i 1500 metri. Formaggi di una qualità che poi, non ho più trovato. Ricordo che uno di quei pastori mi raccontò nei dettagli cosa facevano le sue pecore dalla mattina alla notte nei vari versanti dove di solito pascolavano e quali erbe brucavano. Mi disse che faceva un ottimo formaggio ma non ne aveva da vendere. Gli chiesi il prezzo a cui lo vendeva, diciotto euro. I clienti erano principalmente medici, avvocati e notai. Diciotto euro quando gli altri lo vendevano mediamente a dieci euro al chilo.
UN’ESCURSIONE NELL’ESTATE 2021
La mia amica Daniela ci aveva promesso un’escursione a Perdas Carpias, la cima più alta del Gennargentu, nota come Punta Lamarmora a oltre 1800 metri di altitudine. Giornata di caldo ma non esagerato. Abbiamo fatto un’escursione indimenticabile, soprattutto per i bambini ovviamente. Quattordici chilometri tra andata e ritorno al parcheggio delle macchine. Il sentiero era quasi sempre al sole perché non ci sono boschi in certe parti del Gennargentu se non qualche albero vicino alle fonti. Tutto bene? Sì quasi, tranne il degrado assoluto di quei pascoli comuni battuti da centinaia di mucche e cavalli al pascolo brado.
Cespugli che crescono a stento, copertura erbosa inesistente e terreno esposto a sole, vento e pioggia, calpestio. Neanche una pecora all’orizzonte e neanche capre. Nel pomeriggio siamo andati a visitare un mio ex alunno Mattia, che con la famiglia vive a Su Filariu, un ovile moderno a 1500 metri di altitudine. Proprio in quel momento stava riportando delle capre e delle pecore dal pascolo. Gli ho chiesto che fine avessero fatto tutti gli altri pastori che solitamente si trovavano lì in primavera e d’estate.
PASCOLI DI TUTTI E DI NESSUNO
Ho domandato se fossero una mia impressione quelle troppe mucche e troppi cavalli al pascolo, o se fosse proprio così. Mattia mi fece un breve elenco dei pochi pastori rimasti intorno che ancora avevano capre e pecore, confermandomi che anche secondo lui il carico di bestiame in certe zone era eccessivo e stava portando a situazioni di degrado evidenti. Ai soliti benpensanti verrebbe da dire sempre la solita cosa: la colpa è dei pastori e dei contributi, e i giovani non hanno voglia di lavorare.
Ormai i problemi delle campagne sono sempre colpa dei pastori (che hanno spalle larghe ovviamente), siamo abituati a questa cantilena. Ma un pastore è di fatto un imprenditore e ha il dovere di seguire le politiche che lo riguardano, trovare contributi e in generale pensare al meglio per la sua attività e per la sua famiglia, non possiamo certo noi giudicare cosa sia meglio per lui. Sicuramente dovrebbe occuparsi di più della produttività dei pascoli e della sostenibilità di certe attività nel medio periodo. Ma spesso si tratta di pascoli comunali, che purtroppo in molti paesi equivale a dire pascoli di tutti e di nessuno allo stesso tempo.
LA CONVERSIONE DEL PASTORE
La conversione da pastore di pecore a cowboy è però semplice e sta procedendo spedita da diversi anni. Il mercato vuole vitelli sani, nati da vacche sane e possibilmente a pascolo brado. Vitelli da spedire quasi esclusivamente ai centri di ingrasso che poi vengono rispediti sotto forma di carne, magari in comode vaschette di plastica che hanno viaggiato per migliaia di chilometri.
Il processo di conversione è veloce. Si vendono le pecore, che hanno “il difetto” di dover essere munte due volte al giorno e si sostituiscono con mucche da carne al pascolo brado, che non hanno bisogno di troppe attenzioni. La sera puoi presentarti nella strada comunale o provinciale con una macchina e un sacco di mangime sulle ginocchia, all’altezza giusta che ti permetta di poter versare il contenuto in cunetta. Durante il tragitto, per qualche decina di metri, il mangime cade a terra e si dispone in una fila ordinata come fosse in una mangiatoia. L’ho visto fare molte volte in diverse zone.
Loro, le mucche, si abituano a questa routine, non si inselvatichiscono e al momento giusto sarà facile prelevare i loro vitelli da spedire nelle palestre d’oltremare. Il cowboy ha un contributo per ogni capo, i premi per i pascoli e i terreni e ovviamente il ricavo del vitello. Nessuno si arricchisce, tranquilli! Un caro amico una volta mi raccontò di una sua visita a un centro di ingrasso al quale vendeva i suoi vitelli. Bobò, culturistas pariant. Sembravano dei culturisti, mi disse, per come erano diventati grossi e muscolosi in poche settimane di trattamento. Rispondevano bene alle tecniche di allevamento, meglio dei vitelli nati in cattività in allevamenti intensivi.
CHI PAGA PER IL DEGRADO?
Giusto? Sbagliato? Non spetta a me dirlo. Sarebbe però importante fare riflessioni con chi ha potere di decidere qualcosa. Valutare azioni che non siano mediate dalla domanda di mercato che, ormai sistematicamente, è presentata come un dio supremo, al quale si deve chiedere il permesso per ogni decisione che ci riguarda. Ma nel mentre che decidiamo di decidere, chi pagherà per il degrado dei pascoli e del territorio?
Tutti noi e ovviamente, in primis, i pastori, che negli anni vedranno diminuire i loro redditi in favore di grossisti e rivenditori di mangimi. È un po come chiedersi chi pagherà per i terreni migliori venduti a “coltivatori” di pannelli solari. Pagheranno le comunità e la maggior parte dei cittadini, mentre una piccola minoranza godrà alle loro spalle. Senza considerare che quando un pastore vende le sue pecore, nulla gli verrà riconosciuto per l’esperienza, tramandata da padri e nonni, nel gestire quel tipo di attività. Se la ricorderà certo, la potrà raccontare ai figli e ai nipoti, ma sarà perduta e forse finirà con lui.
L’allevamento bovino è un male? No, se fatto bene può avere anche i suoi vantaggi, sia per l’ambiente sia per le comunità e ha anche una sua storia dignitosa e interessante. Ma l’allevamento ovino e caprino ha più implicazioni all’interno della cultura dei nostri paesi e nell’anima di tante persone, e soprattutto è diffuso in modo più capillare.
UN NUOVO MODO DI ESSERE PASTORI
Cosa succederà? Spariranno i pastori nel giro di poche generazioni? Non credo. Probabilmente cambierà il modo di essere pastori. Quando il mercato, decenni fa, decise che dovevamo vendere pecorino romano in America, ci ha trasformati in pastori mungitori. Quando si doveva fare la guerra dei dazi alla Francia, l’Italia di allora ci aveva trasformati in cowboy. Di questo periodo della guerra doganale si è conservata una grande cultura economica in alcune zone della Sardegna, dove sono nate aziende che hanno trasformato in valori e produzioni di qualità qualcosa che era arrivato come un’imposizione temporanea di interessi alieni alla Sardegna. La dimostrazione che quando vogliamo sappiamo fare le cose bene.
In questo scenario governato dal dio mercato, i pastori che vorranno continuare a resistere e allevare pecore e capre – penso – avranno grossi problemi ma anche grandi soddisfazioni. Sempre meno giovani accederanno al bagaglio culturale insito in queste attività, ma quelli che lo faranno, avranno grande spazio di mercato soprattutto mettendo insieme esperienze e tradizione con nuove tecnologie e relazioni umane.
PER UNA SOVRANITÀ ALIMENTARE
Che fare allora? Niente di particolare. Sarebbe ora di prendere finalmente delle decisioni serie sul nostro futuro di sardi che si dedicano all’agricoltura e all’allevamento e di sardi che ne usufruiscono. Nei nostri paesi gli abitanti dovrebbero decidere che cosa vogliono mangiare, come devono essere prodotti gli alimenti e anche da chi. Ci si deve allontanare dai venditori di cibo finto, dagli spacciatori di energie alternative buone per le tasche delle multinazionali e dagli sciacalli elettorali. Il momento è propizio per riformare le economie locali sostenendo i piccoli produttori e le filiere locali sostenibili. Serve dedicare un po’ di tempo che ora viene perso sui social media. Si può fare l’uno e l’altro. Ne vogliamo parlare?
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