9 Gen 2024

L’aumento dei conflitti ci riguarda: dalla Sardegna uno sguardo sul mondo con Nicolò Migheli

Scritto da: Alessandra Ghiani

Abbiamo incontrato Nicolò Migheli, sociologo esperto di geopolitica, per parlare di narrazione del conflitto con uno sguardo a quanto sta accadendo nel mondo e alle dinamiche di politica internazionale. Fenomeni che incidono in maniera sempre più determinante sulla vita di tutti noi, e che anche se non ci coinvolgono in prima persona ci riguardano. Con lui parliamo di come e perché vengono raccontati alcuni conflitti e altri no, e di ciò che accade in un'Isola come la nostra dove non c'è la guerra eppure, siamo palestra per eserciti da tutto il mondo.

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Quando si parla di narrazione dei conflitti, l’indipendenza degli organi di stampa è un requisito fondamentale per avere un’informazione completa e oggettiva. La carenza di notizie rispetto a vicende gravi che riguardano i conflitti in corso spesso è dovuta alla distanza, non solo geografica, dei soggetti e dei luoghi coinvolti. Altre volte, invece, la diffusione delle notizie viene impedita o quantomeno ostacolata dagli organi di governo.

Nicolò Migheli, sociologo originario di Santu Lussurgiu, autore di importanti pubblicazioni scientifiche e romanzi storici, ci ha illustrato alcune dinamiche che rendono il lavoro dei media indipendenti nel raccontare i conflitti sempre più complesso e la strada verso la pace irta di difficoltà.

conflitti sardegna migheli
Il sociologo Nicolò Migheli
Se parliamo di narrazione del conflitto, i nostri media raccontano quasi quotidianamente della guerra tra Russia e Ucraina, di Israele e Palestina, ma vengono pressoché ignorati altri conflitti non meno sanguinosi, come quello in Congo. Quest’ultimo conta circa 7 milioni di sfollati interni, facendo un paragone con un’ulteriore, atroce guerra in corso, il numero di sfollati nella striscia di Gaza è di circa 1,7 milioni di persone. Perché accade?

Le tragedie nel mondo finiscono sulle prime pagine dei nostri giornali se ci sono europei coinvolti o se accadono vicino a noi. Il dramma dell’Ucraina ci riguarda per la prossimità, non solo geografica: sono come noi, sono bianchi, nelle nostre case ci sono signore ucraine che si prendono cura degli anziani. Pure il conflitto mediorientale ci riguarda direttamente perché tutta la vicenda ebraica, da 2000 anni a questa parte, riguarda l’Europa. Se da una parte pensiamo che sia giusto che gli ebrei abbiano un loro stato, vediamo che questo avviene a spese di un altro popolo, quello palestinese. Non è un passaggio indolore per noi europei e neanche per gli arabi, per ovvie ragioni.

Ciò che avviene in Congo, dove da anni si susseguono colpi di stato che sono brutalmente legati allo sfruttamento delle risorse naturali tra cui il coltan – indispensabile per le batterie degli smartphone e non solo – è lontano da noi e sono in pochi a parlarne. Più che sui grandi media internazionali, è un argomento che finisce su siti specializzati, soprattutto cattolici, o anche su media non occidentali come Al Jazeera. In questo caso, però, succede anche perché gli interessi dei Paesi arabi in Congo sono molto forti.

La guerra uccide la libertà di stampa


Sul conflitto mediorientale,
secondo quanto riportato da «TPI», le autorità di Tel Aviv hanno stretto un accordo con numerose testate in base alla quale gli articoli e le immagini devono essere approvati dall’esercito israeliano. Oltre ai pericoli che i cronisti e gli operatori corrono – in due mesi di guerra ne sono morti più di 60 – questo rende impossibile fare giornalismo indipendente a Gaza.

La guerra ha sempre ucciso la libertà di stampa. Oggi è diventato ancora più difficile perché fare informazione indipendente significa andare sul fronte di guerra a tuo rischio e pericolo e di certo non bastano il giubbotto blu con la scritta “press” o l’elmetto. Anzi, puoi addirittura essere preso di mira. E se i russi sono da sempre i più bravi a intossicare l’informazione, lo scontro con le narrazioni propagandistiche riguarda anche la guerra tra Israele e Hamas.

Pensiamo anche al Messico, ai tanti giornalisti uccisi perché raccontavano i rapporti tra alcuni apparati dello Stato e i narcotrafficanti. Per il discorso della prossimità che facevamo prima, i giornalisti morti a Gaza fanno notizia, quelli uccisi in Messico no.

Per quanto riguarda i due conflitti più vicini a noi, qual è la situazione attuale e cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

Non è facile dare una risposta. Per quel che riguarda l’Ucraina, nonostante le rimostranze dei repubblicani al Senato americano (hanno bloccato un pacchetto di finanziamenti che comprende gli aiuti militari all’Ucraina e a Israele, ndr) non credo che gli Stati Uniti l’abbandoneranno, con tutto quello che comporterebbe.

Quanto a Israele, la situazione è molto più complessa perché rispetto a ciò che sta facendo a Gaza gli stessi americani, quindi i suoi primi alleati, stanno cercando di farlo desistere. Ma il Primo ministro Netanyahu a questo non risponde. Credo che il disegno di Israele sia di espellere totalmente i palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania. Viste le premesse, è impossibile pensare a uno stato unico per il futuro. Non lo vuole Israele ma neppure la Palestina perché uno dei due dovrebbe sottostare al governo dell’altro.

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Parliamo di Sardegna. Non siamo in guerra, non ci sono conflitti in corso, ma nell’Isola si fanno esercitazioni militari piuttosto invasive.

In Sardegna c’è stato un periodo in cui avremmo potuto chiedere un ridimensionamento di queste aree. Gli americani, ad esempio, sono andati via da La Maddalena in un momento in cui il Mediterraneo occidentale era tranquillo. Oggi la situazione è molto diversa e l’Isola, visti il basso numero di abitanti e l’avere una popolazione vecchia, è considerata il luogo ideale per l’addestramento militare.

Questo ovviamente non va bene. Siamo il 2,6% della popolazione italiana e sopportiamo un carico come se fossimo 20 milioni. Di fatto, però, la situazione internazionale impedisce un ridimensionamento di questo impatto perché l’ipotesi di una guerra che ci possa coinvolgere direttamente è plausibile. Questo non significa che si deve rinunciare alle proteste e alle manifestazioni. Dobbiamo però essere consapevoli del fatto che il bisogno estremo di sicurezza è un argomento decisivo per chi governa e il ministro Crosetto è stato molto chiaro al riguardo.

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La pace, quindi, è un’utopia?

Per fare la pace bisogna essere almeno in due. Non basta che uno la voglia, se l’altro non ha nessuna remora a usare le armi per raggiungere i propri obiettivi. E se osserviamo la storia sono più lunghi i periodi di conflitti che i periodi di pace. Neppure la condivisione del vantaggio è sufficiente per evitare le guerre. La pace è frutto di una scelta razionale, ma sappiamo che l’emotività e gli idealismi spesso prendono il sopravvento.

Ci sono anche altre questioni da considerare. Nel 2050 saremo 9 miliardi di abitanti con risorse sempre più ridotte. Questo significa che la conflittualità è destinata ad aumentare. Si faranno guerre per le terre rare, per l’acqua, per il cambiamento climatico, che da solo sta già causando la migrazione di milioni di persone con tutto ciò che questo comporta. Una situazione che, anche se forse noi non saremo qui per raccontarlo, quasi certamente riguarderà anche i sardi.

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