Seguici su:
È proprio vero quel che si dice in giro: la Sardegna è un’isola misteriosa. Ha tutte le caratteristiche dell’incantesimo e tutto l’aspetto della magia. Come in ogni circostanza di modifica della realtà però, bisogna imparare a porsi con fermezza e sguardo attento. Quindi ora inizio questo viaggio di racconti, contus nella mia lingua, attraverso i quali osserviamo un’Isola e una cultura altra e subalterna a quella istituzionale italiana.
CULTURA ALTRA MA IDENTITARIA
La definizione di cultura come “insieme funzionale e strutturale della conoscenza identitaria di un’etnia radicata in un dato territorio” è sempre meno presa in considerazione in questo mondo moderno in cui si lascia il posto, di contro, a una visione di acculturamento, di nozionismo e di conoscenze e competenze quantificabili e istituzionalizzabili. La Sardegna in questo senso vive in un limbo tutto suo: centro della memoria del Mediterraneo, terra antica e isolante nella sua continuità.
Questo limbo culturale è evidente già nella computazione del tempo: quello misurabile ma indefinito dallo scadere del susseguirsi delle generazioni; quello misurabile ma pragmatico delle ruote annuali; quello infine meteorologico, che risente della percezione degli elementi e relativi elementali. Nella nostra cultura infatti mantengono radici forti i segni di un calendario agro-pastorale in cui l’inizio dell’anno è settembre, cabudanni in lingua, sottolineando come l’autunno sia la stagione degli inizi e delle promesse. Solo dalla terra può partire ogni intento possibile.
AUTUNNO, MANIFESTAZIONE DI RINASCITA
Si parla spesso di “mal di Sardegna”, di profonda fascinazione e incantesimo che questa terra crea, del dolore del distacco di intere famiglie che emigrano verso il Continente inserendosi nella difficile condizione di disterraus, emigrati, lontani dalla terra. Esiste un legame atavico tra i sardi – per sangue e volontà – e la propria madre terra. Un legame indissolubile e inestricabile come le onde del mare che la avvolgono o i rovi che proteggono le vie boschive. I sardi radicati interiormente ed esteriormente, i pagani del pagus latino ovvero i villani del villaggio, i biddai delle bidde, sanno bene cosa intendo.
Qui nei villaggi dell’entroterra non si parla mai del tempo tanto per rompere l’imbarazzo di un convenevole, qui si parla del tempo per confrontarsi su ciò che è accaduto, accade e accadrà di noi come popolo. L’autunno è la manifestazione della rinascita della terra dopo l’inverno estivo in cui piante e animali soffrono dell’invasione solare che congela piante, animali e persone: in una morsa di paura del caos igneo che tutto divora e di attesa di concepimento di un nuovo seme che tutto promette.
I SEMI SONO PROMESSE DI VITA DEGLI AVI AI NASCITURI
Nei mesi in cui la luce si rannicchia e si riscalda nel ventre della terra, l’umidità delle nuove piogge e la rugiada dell’alba ammantano il quotidiano di una stasi ristoratrice. I fumaioli si risvegliano con profumi vecchi e nuovi, le fiamme del fuoco domestico ardono dentro lo sguardo di chi sogna ciò che vuole dimenticare, le strade umidicce rallentano i passi e i cieli grigi riducono l’ampiezza dello sguardo. Siamo nel mese di ottobre, mesi de ladamini nella mia lingua, il mese del concime, del nutrimento alla terra. In questa lunazione ci si prepara al contatto con l’oscurità, con ciò che è occulto ma sempreverde – il vitriol dell’esoterismo – e il rinsaldarsi annuale del legame con gli antenati.
Il rapporto è simbolicamente collegato ai semi, alla frutta secca e all’ulivo col quale, colti i frutti ed estratto l’olio extravergine, ci ritroviamo nel mese di novembre. Io l’ho sempre chiamato mesi de is mortus, mese dei morti. Benché abbia altre denominazioni in base alla regione storica di provenienza, è chiaro che il concetto di un mese votato agli avi fosse universalmente riconosciuto in termini culturali isolani. Si tratta di un periodo di profondo raccoglimento familiare e comunitario, con acme nella notte tra il 31 e il 1 novembre cioè Prugadoriu, Ognissanti, Halloween. Diversi nomi per lo stesso intento di introspezione interiore e collegamento alle radici che diventano rami: come sopra, così sotto.
In questo momento fuori dal tempo numerico, i bambini e le fasce sensibili della società diventano vettori culturali, strumento di collegamento con gli ultra-mondi, con i defunti e con gli antichi. I bambini mascherati, in quanto simbolicamente semi di continuità, vanno per le strade a fare la questua in suffragio delle anime. Questo è anche il periodo in cui tradizionalmente i pastori tornavano dalla transumanza, dalle valli alle montagne, e in cui i contadini si occupavano di programmare campi e piante nella speranza che è certezza di una nuova primavera. Proprio in questo mese si inizia la preparazione al solstizio invernale, primo spiraglio di un nuovo fuoco per ognuno.
IL SOLSTIZIO, IL FUOCO E LA PORTA
Dicembre e gennaio, mesi de idas e ennaxu nella mia lingua, sono i mesi della lode alla luce. Inizia la potatura delle piante e dell’anima. Tutto dicembre è scandito dai preparativi alle feste solstiziali sincretizzate con il Natale all’arrivo del cristianesimo sull’Isola. Una religione accolta con grande entusiasmo, sia per la similarità della struttura ritualistica – come nel caso dei culti dell’acqua – che per la prospettiva esoterica rivoluzionaria. Inoltre, in una cultura dove il culto della vita e dell’infanzia è profondamente radicata in su sentidu e in su connotu – nella sensorialità interiore quindi e nella tradizione – non è stato difficile sardizzare anche il verbo evangelico.
Pasca de Nadale o Paschixedda. Il Natale è andato ad amalgamarsi con immediata naturalità coi riti solstiziali preistorici come prima era accaduto col Dies solis invictus e chissà quante altre ritualità di ignari visitatori alieni. Il sardo non si preoccupa troppo delle etichette, sardizza e mantiene la sostanza. Ma qual è la sostanza? È il fuoco. Il fuoco interno, quello occulto e ctonio, che pulsa e come ogni cuore dimostra la vita; quello esterno, quello palese e uranico che noi chiamiamo Sole. Ed è così che a gennaio, il mese della porta, viviamo il dualismo del vedere il passato e il futuro contemporaneamente. Il presente è troppo luminoso per essere osservato.
SANT’ANTONI DE SU FOGU
Il lume dei grandi roghi di Sant’Antoni de su fogu, Sant’Antonio abate, il trickster prometeico che rubò il fuoco dell’inferno al demonio nascondendolo in un bastone di ferula. In ogni regione storica caratterizzata da grande radicamento boschivo, è facile ci sia la tradizione del culto a questo santo, con tutte le sue particolarità magico-religiose. Personalmente, da buona strega sarcidanese, ho alle spalle abbastanza fuochi per potervi consigliare l’esperienza. Ovviamente da buona Serra di cuccuru de monte sono legata inscindibilmente con i riti e le cerimonie di Laconi.
All’imbrunire del 16 gennaio si accende il Grande fuoco e inizia il rito atavico dell’equilibrio tra fuoco interiore e fuoco esteriore, tra orge alimentari e vino, dolci di frutta secca e prodotti del duro lavoro, suoni ancestrali di strumenti, canti, balli e poesia. Per convenzione tacita, in tutta l’Isola all’accensione dei grandi fuochi ci sono anche le prime uscite delle maschere tradizionali sarde che aprono in questo modo il Carnevale tradizionale. Bisogna bruciarsi per conoscere il fuoco, bisogna conoscerlo per amarlo, bisogna amarlo per rispettarlo e non temerlo.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento