Tarozzi e la nuova scuola di giornalismo ambientale: una risposta alle crisi del nostro tempo
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«Se lo vuoi cambiare, prima lo devi raccontare e se lo vuoi raccontare, prima lo devi conoscere». Per muovere i primi passi nel mondo del giornalismo, con un approccio scientifico, costruttivo e approfondito, è nata la Scuola di giornalismo ambientale, costruttivo e digitale. L’ultima creatura di Italia che cambia vuole raccogliere la sfida del presente: la complessità, offrendo saperi e strumenti in un’esperienza di solidarietà e condivisione.
Dal 2 aprile al 1° giugno 2024, in Val Pennavaire. Nove settimane residenziali, tra i monti liguri e le valli piemontesi, con numerosi esperti e un’ampia rete di partner. Uno sforzo pari al ricco programma – già online –, faticoso quanto necessario per tornare a innamorarsi del giornalismo. Ve lo presentiamo facendo quattro chiacchiere con il direttore Daniel Tarozzi.
Daniel, perché una scuola di giornalismo?
Ho studiato e sono laureato in giornalismo e ho avuto l’opportunità di frequentare una scuola di giornalismo ambientale e una di video-giornalismo e per me sono stati passi fondamentali. Una volta, comunque, la scuola di giornalismo erano i giornali stessi, le redazioni, penso alla vecchia scuola del Manifesto, per esempio. Magari guadagnavi poco però imparavi il mestiere. Questo viene sempre meno, oggi in pochi hanno questo “privilegio” di crescere dentro una testata giornalistica perciò è ancora più necessaria una scuola.
Ma scuole di giornalismo ce ne son già, cosa mancava?
Certo, ci sono delle ottime scuole di giornalismo, quello che non c’è è una scuola offline che si prenda il tempo e lo spazio per sviscerare cosa vuol dire affrontare la complessità oggi.
E cosa vuol dire?
Partire dall’ambiente, ma con l’ottica che noi abbiamo dell’ambiente. E cioè che non è una categoria a sé, qualcosa da relegare a pagina 82, come a dire “prima le notizie vere e poi l’ambiente”. Partendo dall’ambiente ti chiedi cosa vuol dire oggi energie, guerre, cambiamenti climatici, plastica, rifiuti, ecomafie. Per me è questo il giornalismo ambientale: interconnessione e complessità.
In Italia permane la pessima abitudine di considerare l’ambiente una categoria, come qualcosa di scollegato a tutto il resto.
Per questo sono contrario alla categoria “giornalismo ambientale” ma una formazione serve. Di solito un giornalista ha una formazione umanistica, che è importantissima perché dà gli strumenti per capire il mondo. Ma quando, per esempio, si parla di cambiamento climatico, di fronte ai vari negazionismi che circolano in questo periodo, devi avere strumenti o comunque accesso alle fonti scientifiche. E soprattutto devi avere la capacità di comprenderle.
Il giornalista scientifico deve saper comprendere e analizzare i dati, fare un confronto che non sia emotivo. Con il Covid abbiamo visto l’enorme difficoltà di fare informazione uscendo dagli schieramenti laddove tutto diventa pro e contro. Chi si occupa di ambiente, salute, società, ha necessità di strumenti e fonti. Questo vale per chi ha il desiderio di intraprendere questa professione, ma anche per chi già la svolge. La Scuola si rivolge anche a chi vuole comprendere e affrontare le sfide legate all’ambiente, alla salute e al territorio, a chi desidera comprendere l’informazione più in generale e agli attivisti e alle attiviste sensibili alle tematiche ambientali e sociali per poterle comunicare in modo più efficace e corretto.
Ecco perché quello che mi rende orgoglioso di questa scuola non è solo il contenuto ma anche il contenitore. Le decine di docenti entreranno a far parte dell’agenda del giornalista di chi parteciperà a questa scuola. Potranno telefonare a questi professori e professoresse, esperte ed esperti per capirne di più. Tornare a casa con i contatti diretti degli esperti.
Questo è il pane quotidiano di un giornalista. Chi come noi si è formato alla vecchia maniera sa che bisogna studiare, domandare, consultare gli esperti, prima di scrivere. Italia che cambia lo sintetizza bene: per raccontarlo devi conoscerlo, mi permetto di aggiungere che per conoscerlo devi studiare. Non c’è altra via…
Infatti è un corso duro, ma questa è una scelta politica. Il programma è molto denso, richiede due mesi di attenzione per conoscere, capire e, mentre si studia, applicare e imparare. È una sorta di ritiro spirituale dal quale uscire trasformati. Due mesi in spazi condivisi con 30 persone che diventano in potenza i tuoi colleghi, è una specie di Erasmus in Italia. Sarà faticoso, ma anche divertente. Ci sarà da studiare ma si potrà fare anche un salto al mare, che è a soli 30 minuti da lì.
Nove settimane residenziali tra i monti liguri e le valli piemontesi, in Val Pennavaire. Perché avete scelto questo spazio?
Dietro c’è l’idea di creare una sorta di messa a terra di quello che Italia che cambia ha creato in questi ultimi anni. Stare in mezzo ai monti, nell’entroterra, lontano dalle città e di luoghi noti, diventa inevitabilmente l’occasione per rafforzare relazioni. Il luogo è un vecchio albergo, oggi una sorta di grande casale che ha ancora molte stanze e diverse cucine, e poi una grande sala e una grande cucina che saranno gli spazi comuni. Si potrà vivere e cucinare tutti insieme o a piccoli gruppi, sempre in condivisione di un unico luogo.
Socialità, questa sconosciuta! Per valorizzarla è necessaria una qualche forma di coabitazione. Chi verrà a scuola probabilmente sarà molto giovane e quindi traumatizzato dal distanziamento sociale pandemico. È anche per questo che si punta a forme di coabitazione?
La risposta è già dentro la tua domanda: promuovere il riavvicinamento sociale. Sinceramente non so quanto sia stato consapevole ma nella nostra indole c’è l’istinto a promuovere le relazioni. Se c’è una cosa che ho imparato in questi undici anni in giro per l’Italia è l’uso della facilitazione, quindi mettere al centro le relazioni, la risoluzione dei conflitti. Ecco perché una Scuola di giornalismo per essere un’esperienza bella – e non solo di apprendimento di nozioni – non può che essere un’esperienza sociale.
Decisamente un valore aggiunto. E mi dai la sponda per passare a un altro punto: il giornalismo digitale, quindi tecnologico. La tecnologia con l’assenza della fisicità rischia di smembrare il senso stesso della redazione. Nell’era della competizione spietata e dell’isolamento, come dare agli studenti un senso di solidarietà tra colleghi?
La collaborazione tra colleghi è alla base. Anche la valorizzazione del giornalista freelance avviene dentro i gruppi. C’è sempre la duplice dimensione: collettività e legittima autonomia. Questo si evince dalla nostra rete dei partner. Guardandola si può capire quanto Italia che cambia tocchi vari mondi: da Wwf, Lav, Lipu e Sea Shepherd ma anche Crisi come opportunità o Scuola capitale sociale e ancora Invento Lab, Articolo21 e Indip. Anche questa è socialità: fare incontrare, anche in modo asincrono, tutte queste realtà in un unico luogo.
Ci vogliono molte voci per sfidare la complessità… C’è un equivoco piuttosto diffuso in Italia, e cioè che giornalismo costruttivo voglia dire good news, quando invece è il racconto di un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, della complessità appunto. Non ci sono notizie buone e notizie cattive, ma notizie e basta.
Esatto e la complessità è assolutamente alla base. Viviamo in mondi complessi dove tutto è intrecciato, noi partiamo dall’ambiente per parlare di guerre, energia, relazioni sociali, sistemi di governance. Come ama sempre ricordare Andrea Degl’innocenti: non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, bisogna diffidare da “la” soluzione. L’auto elettrica o i pannelli solari non sono “la” soluzione, sono degli strumenti che possono essere utili in un quadro complesso, in cui per restare nell’esempio – usi meno macchine e consumi meno energia.
A proposito di stereotipi, ce n’è uno che vuole “i ragazzi di oggi” tutti aspiranti influencer, come lobotomizzati da device e social network.
Non è affatto così, anzi! Ho totale fiducia nelle nuove generazioni. Quando vai alle manifestazione di Fridays for Future o Ultima Generazione, ma anche quando vai a incontrarli nelle scuole, ti accorgi che sono affamati di vita e di conoscenza.
Molti di loro hanno il sogno di fare giornalismo, immaginandolo come il lavoro della libertà. Ma il nostro è un mondo devastato da precarietà e giochi di potere, cosa vuoi dire a un giovane che ci sta leggendo per invitarlo alla scuola?
Anche a me dicevano di non fare il giornalista. Detesto chi ti dice di non inseguire il tuo sogno, ma non sono nemmeno d’accordo con chi illude. È difficile fare il giornalista, in particolare in Italia ma nel mondo moderno in generale. Oggi, grazie al web e alle nuove piattaforme, c’è più precarietà ma anche più opportunità, quando ho iniziato io c’erano pochissimi spazi, adesso ce ne sono tanti anche se non ricchi.
È vero che è un mondo precario che probabilmente non ti garantisce un posto fisso, ma chi può garantirlo oggi? Ci sono le sconfitte, la fatica, il dolore anche, ma questa è la vita. Girando l’Italia ho imparato che se metti al centro il tuo talento un modo lo trovi.
Fai il lavoro che ti piace e non lavorerai mai. Possiamo chiudere dicendo che uno degli obiettivi di questa scuola è tornare a innamorarsi del nostro lavoro di giornalisti?
Assolutamente sì, non a caso è fatto da gente che lo ama visceralmente.
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