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Cosenza - «Speriamo in un mondo senza più carcere». Con questa speranza è nata a Cosenza nel 2006 l’associazione Yairaiha, che da allora si occupa e preoccupa della tutela dei diritti umani, in particolare delle persone private della libertà personale. Dai migranti rinchiusi nei centri del territorio ai detenuti negli istituti penitenziari, l’associazione si muove attraverso ispezioni conoscitive, supporto a familiari e detenuti, campagne per sensibilizzare e informare su questo aspetto troppo spesso nascosto della nostra società.
Avvocati, giuristi, criminologi, ricercatori, psicologi, semplici attivisti. E poi diversi familiari di persone detenute e soprattutto oltre 300 detenuti iscritti all’associazione. In particolare infatti è attraverso i continui rapporti epistolari con centinaia di detenuti e i loro familiari che Yairaiha ha costruito – e continua a farlo giorno dopo giorno – un quadro della situazione sempre aggiornato.
La prima cosa che chiedo a Sandra Berardi è cosa significa Yairaiha e lei ci racconta che vuol dire “viaggiatore”. Perché l’associazione prende il nome da un CD inciso da due ragazzi magrebini all’interno del carcere minorile di Catanzaro nei primi anni 2000. Ed è qui in regione che tutto è iniziato, anche se presto il lavoro si è esteso a tutto il Paese.
«Siamo nati su impulso dei detenuti nelle carceri calabresi, partendo dalla conoscenza di questi stessi istituti con ricerche e visite ispettive. E poi queste attività si sono estese a tutto il territorio nazionale», racconta Sandra. «L’azione si è propagata da sé con il passaparola tra i detenuti stessi, siamo diventati un punto di riferimento per centinaia di carcerati. Bisogna tenere presente che le carceri sono una specie di circoscrizioni calabresi o comunque meridionali».
Questa frase potrebbe sembrare una boutade, ma così non è. Analizzando le presenze negli istituti penitenziari, risulta che al 30 giugno 2023, il 45,2% delle persone detenute in Italia proviene dalle regioni di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Davanti a questo dato si può liquidare il fenomeno con la propensione al crimine in queste aree oppure interrogarsi e scoprire che il carcere è spesso lo specchio di emarginazione sociale, povertà e altri fattori strutturali. La correlazione tra povertà e tasso di criminalità è un tema ampiamente riconosciuto dagli esperti di criminologia.
«Rispetto alle carceri c’è una questione meridionale ancora aperta», dice Sandra. La presidente di Yairaiha è una donna schietta, diretta, non ha peli sulla lingua ed entra nel cuore di un tema assai divisivo quale spesso è la giustizia. «Per esempio, un reato come la distrazione di fondi che altrove diventa appropriazione indebita, qui diventa associazione mafiosa».
Berardi denuncia un vero e proprio sistema punitivo diverso per i meridionali. «Prendiamo il 416 bis: deriva direttamente dalla vecchia Legge Pica che puniva i briganti e arrestava anche i loro familiari. Nelle sezioni femminili di alta sicurezza ci sono in prevalenza donne che non hanno commesso reati, se non quello di essere mogli, figlie o madri di qualcuno. E magari dopo anni di carcerazione preventiva vengono assolte per non aver commesso reati».
Siamo nel campo del pregiudizio nel senso più letterale e repressivo del termine. «È proprio questo l’obiettivo di Yairaiha: provare a rompere questi tabù». E per farlo c’è bisogno di sensibilizzare il mondo fuori. Uno dei modi è “La prigione e la piazza”, una mostra mercato itinerante di libri dal e sul carcere che da due anni attraversa le città di tutta Italia, non solo al Sud. «Occorre rompere il muro di omertà rispetto al carcere, c’è la necessità di un superamento culturale. È chiaro che il solo intervento repressivo non è sufficiente a superare determinate problematiche».
È una battaglia contro la repressione, non solo in termini etici e umanitari, ma strategica: il ricorso a questo metodo non funziona, non è risolutivo. L’associazione Yairaiha si è costituita parte civile in più di un processo, in qualche caso i processi sono nati proprio grazie al loro intervento. «Il modello carcerario italiano è sotto gli occhi di tutti. Le immagini di Santa Maria Capua Vetere hanno fatto cadere il velo di ipocrisia che sinora ha coperto la mattanza nelle carceri italiane a seguito delle proteste e non solo».
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