Montagna terapia: persone con fragilità in cammino per superare etichette e pregiudizi
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Ascoli Piceno, Marche - Matthias Canapini è un ragazzo marchigiano di 31 anni che dal 2012 – seguendo la sua vocazione e professione di scrittore, fotografo e giornalista – racconta storie attraverso un taccuino e una macchina fotografica. Negli anni ha viaggiato quasi esclusivamente a piedi o utilizzando i mezzi pubblici: ha attraversato i Balcani, l’Est Europa, il Caucaso, l’Africa Occidentale e il Sud-est Asiatico, documentando aree di conflitto come la Siria, l’Ucraina e il Kurdistan iracheno.
Non solo: è rimasto anche nelle vicinanze raccontando il sisma che colpì il centro Italia qualche anno fa e le memorie “rurali” lungo le Alpi e gli Appennini – qui abbiamo parlato della sua bella iniziativa che ha lanciato per aiutare la sua terra, le Marche, a risollevarsi dal terremoto. Durante il suo ultimo progetto, per un paio d’anni, ha seguito le principali rotte dei migranti che dall’Africa Sub Sahariana e dal Medio Oriente si snodano fino a Berlino, Parigi e Londra.
Oltre a questo, in veste di accompagnatore e fotoreporter, dal 2021 si occupa di montagna terapia. Di cosa si tratta nello specifico? Di accompagnare persone con diverse fragilità sull’Appennino, nello specifico all’interno del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. «Era l’ottobre 2022 e nacque tutto grazie alla sinergia con l’Agenzia Res di Fermo e qualche amico appassionato di montagna, un po’ per gioco e un po’ per destino, siamo riusciti a organizzare un cammino di tre giorni nei Monti Sibillini con un gruppo di richiedenti asilo provenienti dal Ciad, dalla Nigeria e dalla Somalia. L’intento era quello di camminare insieme per poter guardare e raccontare “casa” con occhi nuovi e culturalmente distanti».
Matthias mi racconta che quest’esperienza ha contribuito a riaccendere i riflettori sulle aree interne e a sostenere alcune realtà e comunità che furono colpite duramente dai terremoti nell’autunno del 2016. Fu proprio da quel momento che la rete iniziò ad allargarsi, tant’è che proprio recentemente il gruppo di montagna terapia ha concluso un ulteriore cammino in compagnia di alcuni ragazzi della Comunità di Recupero di Montefiore (AP) e anche in questo caso la montagna è stata un orizzonte riabilitativo dopo l’utilizzo di sostanze e periodi di tossicodipendenza.
«Credo che la montagna sia tante cose: fatica, sacrificio, bellezza, serenità, scomodità, amore. E credo che possa insegnarci un’idea diversa di stare al mondo, ossia il ritorno all’essenziale, a quella semplicità che tanto manca. Sudiamo tutti allo stesso modo, al di là delle categorie imposte». Queste parole mi portano in vetta, allargano i miei panorami e mi fanno prendere coscienza del fatto che la montagna mette realmente tutti gli individui e tutte le cose sullo stesso piano, perché, come dice Matthias, ti fa comprendere che la cosiddetta “cordata” più che portarti in vetta ti aiuta a non cadere. E ciò si manifesta solo collettivamente.
La cosa più rivoluzionaria del camminare in montagna all’interno di progetti “inclusivi” è abbattere gradualmente le etichette: non esistono più migranti, disabili o utenti psichiatrici ma persone, ognuna con le proprie difficoltà e aspirazioni. Se lo portassimo a valle dentro lo zaino, questo insegnamento potrebbe essere sicuramente uno di quei souvenir dal valore inestimabile perché ci ricorderebbe di cogliere l’umanità nella sua intera complessità senza utilizzare scorciatoie come le etichette, che possono sì semplificarci la comprensione, ma “uccidono” tutto il resto.
«Nei progetti di montagna terapia, dentro l’abbraccio universale della natura, ci sono un soggetto curante e un soggetto curato, ma ci sono soprattutto persone che partono e arrivano, che sudano e contemplano, che arrancano, che si difendono e si espongono. In montagna, più che in altri contesti, la terapia è una terapia per tutti e tutte. In una società che spinge al continuo inseguimento della performance e dell’immediatezza, sentiamo il bisogno di recuperare i tempi e gli spazi necessari per una esplorazione profonda dei luoghi in cui viviamo, degli altri, di sé stessi: recuperare i piedi come filtro d’incontro».
«Specificata questa cosa, penso che il termine “terapia” sia di troppo», prosegue Matthias. «Mi rendo conto di utilizzarlo per pura convenzione e comodità, come i termini disabile, migrante, utente, beneficiario, operatore, giornalista. Penso che svariate attività funzionano e attirano pubblico, perlomeno a livello mediatico, proprio per la parola terapia, ad esempio la forest therapy, con tutto rispetto per le persone che ne usufruiscono e la promuovono. Credo che ci sia un estremo bisogno di cose vere, di maggior empatia e meno spettacolarizzazione. Farei volentieri a meno della parola terapia e di tanti altri termini spesso imposti».
Ad oggi i progetti/cammini ufficiali sono stati due: il primo – a ottobre 2022 – con un gruppo di richiedenti asilo dislocati tra Fermo e Grottammare e il secondo – a settembre 2023 – con la Comunità di Recupero di Montefiore che prima vi ho raccontato. Tutti gli itinerari scelti hanno mantenuto una forte valenza turistica, culturale e simbolica. Le strutture di accoglienza, come rifugi e foresterie – il rifugio del Fargno, il rifugio del Tribbio e Il Giardino delle Farfalle – sono stati fondamentali per il senso del progetto, in quanto spazi di scambio, calore e socialità.
«Ci auguriamo di proseguire in questa direzione, sporcando le scarpe di terra, imbastendo connessioni con istituzioni e privati cittadini, affinché l’atto del camminare diventi filtro d’incontro, la poesia dei luoghi remoti antidoto alle paure odierne», conclude Matthias Canapini. «Vorremmo continuare a stringere amicizie e legami (ri)scoprendoci tribù, memoria, ponte passo dopo passo».
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