Barbara Pierro e l’integrazione a Scampia: dieci anni dopo, chi rom… e chi no? – Dove eravamo rimasti #24
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Campania - Di Barbara Pierro in questi undici anni ho parlato centinaia di volte. La “sua” Chi rom e… chi no e i successivi progetti hanno costellato i miei libri, il mio spettacolo teatrale, ogni mia conferenza o intervista radiofonica. La potenza della sua storia e del quartiere che la ospitava era e resta per me dirompente. Follia tra le follie, in-Coscienza tre le incoscienze e le inconsistenze, sogno che si fa utopia e che – per una volta – si fa realtà. Qui trovate l’articolo e il video della prima intervista realizzata nel 2013. Andatela a rivedere prima di continuare a leggere questo articolo.
Avete visto? Non sto a ripetermi. A raccontarvi del progetto di integrazione dei rom a Scampia, della successiva nascita de La Kumpania, della voglia di abbattere i confini invisibili che caratterizzano i luoghi degli “emarginati”. Non starò qui a ripercorrere i successivi anni. La nascita di Chikù, il ristorante di cucina napoletano-balcanica che all’epoca era ancora in gestazione e che negli anni è diventato punto di riferimento per il quartiere, autentico faro di cultura, incontri, ibridazioni, lotte, sconfitte, dolori, ripartenza, sogni, lacrime, risate, abbracci. Non vi racconterò nemmeno dell’ultimo progetto nato da questa fucina infinita di pensiero e azione che caratterizza questa parte di quartiere: l’ecomuseo urbano diffuso, ben riassunto da un recente articolo di Francesco Bevilacqua.
BARBARA
“Allora di cosa ci parlerai in questo articolo?”, vi starete chiedendo. Di Barbara. Di Barbara, che in vent’anni di attivismo e attività non si è mai arresa. Del fatto che quando le chiedo se è soddisfatta di quanto ottenuto – e penso alle centinaia di vite migliorate grazie al suo e al loro lavoro – mi risponde che “no, non è soddisfatta”. Ha conosciuto il figlio di uno dei rom di allora che sta messo peggio dei suoi genitori. E sento il dolore attraversarla. Dolore che però subito si trasforma in voglia di agire appena le faccio notare i risultati ottenuti e voglia di agire che si trasforma in costante gratitudine per quello che la vita ha dato a Barbara.
Già, perché tra i tratti ricorrenti che accomunano la video-intervista di dieci anni fa con il podcast allegato all’articolo di oggi, mi ha colpito il suo sottolineare che lei e i suoi colleghi e colleghe hanno ricevuto più di quanto hanno dato. È quasi un mantra per Barbara. Quando ad esempio le faccio notare che molte vite sono cambiate grazie a loro lei mi risponde: «Grazie a loro!». Cioè, io con “loro” indicavo Barbara e soci, lei invece con “loro” indicava i e le rom e le persone che in generale hanno incontrato sul loro progetto, sul loro cammino.
PERCHÈ LO FANNO?
Questa gratitudine mi colpisce perché non è artefatta. Non è retorica. Non è quello schernirsi che a volte caratterizza i “protagonisti del terzo settore”. In Barbara questa gratitudine è autentica tanto quanto il dolore per ciò che non va e la voglia, la necessità, di esserci per dare il proprio contributo. Nessun volo pindarico, ma una concreta capacità di agire, coinvolgere, coinvolgersi.
Chiedo a Barbara, dopo decine di interviste in cui avevo sempre evitato la domanda, cosa spingesse anni fa le mamme a portare i figli nel campo rom. Un’immagine che mi aveva sempre colpito per la sua potenza dirompente. Sono due le motivazioni che hanno spinto le famiglie napoletane a varcare i confini immaginari: un programma culturale di altissimo livello e la costruzione di relazioni significative con le persone con cui sono entrati in contatto. Proprio le relazioni sono l’antidoto alla frustrazione quotidiana. «La possibilità di credere nelle persone è il risultato più significativo. Ogni persona a cui abbiamo dato fiducia se la porta con sé e questo può essere un motore di cambiamento che non sappiamo bene quando scatterà».
LA VITA PRIVATA
Nella nostra chiacchierata facciamo anche il punto sulla vita privata di Barbara. L’avvocata Pierro – sì, Barbara è avvocata da molti anni ormai – è madre di tre figli e oltre a generare di continuo progetti a Scampia e a partecipare alle attività degli altri partner territoriali – in primis quelli del Gridas, madre e padre di moltissime delle iniziative che costellano il quartiere – cerca appunto di crescere i suoi figli e di far funzionare anche la propria economia. Una sfida forse ancor più dura che integrare le minoranze.
Le chiedo come vada: «Con un disequilibrio perenne», risponde ridendo. «Non abbiamo trovato la soluzione. Non abbiamo trovato una strada che percorriamo allegramente. La conciliazione tra vita privata e lavoro, in un Sud e in un mondo-Paese in cui scarseggiano i servizi alla persona e soprattutto alle donne che vogliono avere un tempo per il lavoro, è molto difficile. Io sono stata fortunata ad avere un contesto famigliare e comunitario che me ha consentito questa libertà, incluso il fatto che la famiglia stessa è coinvolta nei miei stessi progetti».
Secondo Barbara, il confine tra lavoro e privato è molto sottile con tutti i pro e i contro che ciò determina: «Anche i figli di conseguenza sono catapultati in tutti i nostri vissuti. Ora crescono e giustamente cominciano ad allontanarsi. A fare le loro esperienze. Anche a livello economico noi sono anni che rinunciamo alle entrate potenziali di Chikù. Potremmo spostarlo in centro e guadagnare molto di più. Ma io mi ripeto che il valore delle esperienze e di quello che tu sei non si può misurare con il dato economico e che quindi se mettiamo sulla bilancia il capitale sociale e il capitale economico, possiamo trovare un anello di congiunzione».
Non aggiungo altro. Rileggo le ultime righe e trovo una sintesi di dieci anni di Italia che Cambia. Con queste parole, quindi, vi lascio e vi invito ad ascoltare il podcast incluso in questo articolo, che poi è la terza puntata del nostro nuovo format: Non funzionerà mai. Sarà proprio così?
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