Narges Mohammadi: un Nobel per la pace e per la libertà delle donne iraniane
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“Sono le gocce che fanno il mare”, recita un antico proverbio persiano e forse solo di un’altra goccia si tratta quando si parla del Nobel per la pace conferito pochi giorni fa alla giornalista e attivista iraniana Narges Mohammadi, rinchiusa nel carcere di Evin a Teheran dal 16 novembre 2021. Nel silenzio del municipio di Oslo, dove storicamente viene assegnato il prestigioso riconoscimento, sono risuonate le parole che da oltre un anno accompagnano le coraggiose proteste del popolo iraniano: Zan, Zendegi, Azadi, ovvero Donna, Vita, Libertà.
Ha esordito con queste tre parole Berit Reiss-Andersen, presidente del Comitato norvegese per il Nobel: «Assegnandole il Premio Nobel per la Pace di quest’anno – ha dichiarato – il Comitato norvegese per il Nobel desidera onorare la sua coraggiosa lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia in difesa dei diritti umani e la libertà per tutti». Una scelta senz’altro politica quella di conferirle il Nobel, ma necessaria a non distogliere lo sguardo dell’Occidente dalle rivolte senza precedenti che hanno incendiato le strade del Paese dall’uccisione della giovane curda, Mahsa Jina Amini, morta a settembre dell’anno scorso mentre era in custodia degli agenti della polizia morale per aver lasciato intravedere delle ciocche di capelli dal suo hijab.
“Il Premio Nobel non servirà a Narges dunque, ma serve a tutti noi. Ci serve da memorandum. Ricordiamoci che la resistenza esiste”, ha scritto in un editoriale Sara Hejazi, antropologa e giornalista. Non porterà facilmente alla scarcerazione dell’attivista, come invece auspica Christophe Deloire, segretario generale di Reporters sans fontières (RSF), organizzazione che da anni si batte al fianco del marito e dei due figli della Mohammadi perché venga finalmente rilasciata e le sia permesso di rivedere la propria famiglia, rifugiata in Francia.
LA VITTORIA È VICINA
Nata nel 1972 a Zanjan, capoluogo dell’omonima provincia a Nord dell’Iran, Narges Mohammadi inizia la propria battaglia in difesa dei diritti e la libertà del suo popolo, e delle donne in particolare, sin dall’università, dove si laurea in fisica. Da anni in ostaggio del regime degli ayatollah, Mohammadi riceve la sua prima condanna nel ‘98, per i duri attacchi al governo e in particolare alla legge che prescrive alle donne l’obbligo di indossare l’hijab.
Nel 2009 Narges Mohammadi viene nominata vicepresidente del Centro per la difesa dei Diritti umani, fondato da Shirin Ebadi, attivista, avvocatessa e prima donna in Iran ad aver ricevuto dal Comitato norvegese per il Nobel lo stesso riconoscimento quest’anno conferito a Mohammadi, considerata da molti la sua erede, soprattutto per il coraggio indomito con cui conduce le proprie battaglie in difesa della libertà e dei diritti del suo popolo.
«Il sostegno globale e il riconoscimento della mia difesa dei diritti umani mi rendono più risoluta, più responsabile, più appassionata e più fiduciosa», ha dichiarato l’attivista iraniana detenuta in carcere in un messaggio inviato al New York Times subito dopo aver ricevuto in Nobel. «Spero anche che questo riconoscimento renda gli iraniani che protestano per il cambiamento più forti e più organizzati. La vittoria è vicina».
LA RISPOSTA DI TEHERAN
La notizia del Nobel per la pace a Mohammadi ha riempito di orgoglio la comunità iraniana, anche al di là dei confini nazionali. Ma soprattutto la sua famiglia: il marito, Taghi Rahmani, giornalista e attivista che ha riconosciuto l’importanza del premio conferito alla moglie per tutto il movimento “Donna, Vita e Libertà”; e i suoi figli gemelli, Ali e Kiana, fieri della madre che non vedono da ben otto anni. Durissima invece la reazione di Teheran: d’altronde è quasi esclusa la possibilità che Narges Mohammadi possa ritirare il Nobel. Il riconoscimento infatti è stato subito etichettato come un’azione contro la sicurezza nazionale del Paese.
Arrestata per ben 13 volte, condannata a 31 anni di carcere e a 154 frustrate, Narges Mohammadi – come ha ricordato il Comitato Norvegese per il Nobel – non ha mai lasciato l’Iran per combattere in difesa dei diritti umani, nonostante l’elevatissimo costo personale che ciò ha comportato. Neppure rinchiusa a Evin la premio Nobel ha mai smesso di combattere, denunciando le torture, gli abusi e le violenze anche sessuali perpetrate sulle detenute, il cui numero è cresciuto esponenzialmente dallo scoppio delle proteste l’anno scorso, le più accese mai registrate dalla Rivoluzione del ’79, quella che ha instaurato l’attuale regime al potere.
Lo scorso settembre, a un anno dalla morte di Mahsa Amini, divenuta il simbolo del coraggio di migliaia di donne scese in piazza, Narges Mohammadi l’aveva ricordata dalle pagine del New York Times. Aveva raccontato di quando, insieme alle sue compagne di cella, ne aveva appreso la notizia della morte e di quelle brevi telefonate ai parenti oltre alle sbarre per capire cosa stesse accadendo in tutte le strade dell’Iran e del resto del mondo.
Nelle parole di Mohammadi, dopo anni di lotta e protesta, non vi erano sconforto, cedevolezza, ma solo la coraggiosa convinzione che il popolo iraniano – perché per la prima volta le donne non era state lasciate da sole – non avrebbe smesso di combattere, reso addirittura più forte dalle torture e dalle indicibili violenze del potere: “What the government may not understand – aveva scritto con fermezza – is that the more of us they lock up, the stronger we become” [“Ciò che il Governo sembra non capire è che più ci rinchiuderanno più diventeremo forti”, ndr].
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