Sono stata in Madagascar e… Quattro storie di vita e di solidarietà
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Ho vissuto in Madagascar per decenni, ricoprendo diversi ruoli: madre, Console e creatrice di progetti umanitari attraverso la mia Fondazione Akbaraly. Con grande sorpresa ho incontrato centinaia di italiani che, senza cercare né fama né gloria, dedicano il loro prezioso tempo ad aiutare la popolazione di uno dei paesi più poveri al mondo ad avere una vita migliore e un futuro dignitoso.
Durante il mio incarico come Console Generale Onorario d’Italia, tra il 2000 e il 2015, esistevano ben 160 associazioni italiane di volontari per il Madagascar. Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni di questi benefattori, prima che intraprendessero il lungo e faticoso viaggio verso la loro destinazione: costruttori, elettricisti, casalinghe, medici, persone che in Italia svolgono tante altre professioni, qui si spogliano di ogni ruolo e si trasformano in angeli.
Sì, angeli che condividono con gioia, compassione, energia e amore tutto ciò che hanno imparato e che, in qualche modo, può essere utile. Non solo la loro professione, ma la loro anima. In cambio, ricevono l’amore e la gratitudine di coloro di cui si occupano, creando un circolo infinito di dare ed avere, insegnare e imparare. Personalmente condivido ogni parola, ogni sensazione, ogni gioia. Ecco alcune testimonianze che mi hanno lasciato.
Ho iniziato la mia “carriera” da volontaria esattamente trent’anni fa, quando andai a vivere in Madagascar. Molto presto capii che non potevo “stare a guardare” bambini, anziani e cani tutti insieme a cercare i resti di cibo nelle immense pattumiere a cielo aperto. Avevo appena partorito della mia primogenita e naturalmente ero più sensibile nei confronti dei bambini. Cercai degli orfanatrofi e missioni con bimbi abbandonati o poverissimi e creai un’associazione per aiutarli ad andare a scuola e farli crescere fuori dalla miseria.
Grazie agli amici italiani e al passaparola, con le adozioni a distanza e qualche donazione libera, negli anni mi sono occupata di qualche migliaio di giovanissimi, che ho visto crescere e diventare donne e uomini. Per me questo è stato il “battesimo” con il Madagascar poiché ebbi la possibilità di conoscere a fondo il paese e la sua popolazione, imparare la lingua, entrare nelle case e capire i loro immensi fabbisogni, non sempre solo materiali. Con il tempo intuii che la miseria non è solamente la mancanza di beni di prima necessità, ma soprattutto mancanza di rispetto, di giustizia, presenza perenne di violenza sulle donne e bambini. In una sola parola, significa mancanza totale di libertà umana.
Per me andare a trovare i bimbi è sempre stata una festa, perché sono accolta con sorrisi ed abbracci. Abbiamo creato una Fondazione per sviluppare progetti umanitari ancora più importanti, a partire da quello nato “grazie” al mio tumore al seno, che mi spinse a mettere in piedi il primo progetto oncologico per le donne in Africa Sub-sahariana. Oggi ci occupiamo, nei nostri vari centri nel paese e con l’unità mobile, di sanità, di malnutrizione, di educazione e formazione.
Questa è stata la vera avventura e università nella mia vita, poiché è stato molto difficile, faticoso, frustrante per tanti punti di vista. Soprattutto mi ha insegnato il perché della grande povertà nel mondo e per questo io mi batto e continuerò a farlo, non solo in Madagascar, ma su diversi fronti, per un mondo più giusto e migliore.
CARLO
È un vortice di emozioni, domande, risposte, lacrime e sorrisi, il bagaglio con cui si rientra a casa. Sono settimane di contrasti, perché in un paese come il Madagascar non può essere altrimenti. Ho visto un territorio tanto bello quanto difficile: dopo ogni curva c’è un orizzonte meraviglioso, ma gli spostamenti si misurano in ore e non in chilometri. Ho visto vallate verdi costellate da casette marroni, deliziose all’apparenza, ma minuscole e precarie.
Ho conosciuto i malgasci, sorridenti, calmi, ma in perenne lotta con la povertà, le malattie, la fame. Ho visto bambini non ricevere un’istruzione per aiutare la famiglia: l’importante è mangiare, poi viene il resto. Ho scoperto che qui i bambini nascono con patologie che in Italia neanche esistono più. E molti di loro una mamma e un papà non ce li hanno nemmeno, sono soli, ultimi tra gli ultimi. Alcuni sono timidi, altri dei vulcani, alcuni storpi, altri minuti, ma tutti forti. Più forti di me, di sicuro. Mi hanno insegnato molto con i loro sguardi, sorrisi, abbracci.
Ho conosciuto chi lavora per aiutarli, affrontando mille difficoltà: una rete di persone che singolarmente fanno tanto, ma che unite fanno miracoli! Nel preventorio pediatrico di Mahasoa, in un’area rurale e remota, i bambini nati con malformazioni possono camminare e correre. Ho seguito alcuni di questi angeli durante gli interventi chirurgici. Ho assistito al loro coraggio e alla loro resistenza, all’impegno dei dottori e delle suore che lavorano in ospedale.
Il Madagascar ha un grande problema: nessuno ne parla, se non per i baobab, i lemuri e il cartone animato. È un paese dimenticato. Quello che posso fare io, per restituire quello che mi ha dato, è fare scoprire questo meraviglioso paese e i suoi angeli, e invitare a vivere di persona ciò che ho raccontato.
STEFANO
Vado ad Ambanja da oltre dieci anni, ma ogni volta è un’esperienza nuova. È sorprendente come questa “vacanza” strana mi abbia plasmato. Nei primi anni mi spingeva una sorta di curiosità, il desiderio di condividere le mie conoscenze con i medici dell’ospedale e di passare il tempo con padre Stefano, missionario cappuccino in Madagascar da circa trent’anni. Poi, piano piano, quei volti sono diventati sempre di più e sempre più familiari, tanto che ora posso dire di tornare in un posto che amo.
Padre Stefano è una presenza importante, testimone vivente di un’opera allo stesso tempo semplice e grandissima. Ora la sua opera si concentra sull’accoglienza di bambini orfani o abbandonati ed è quindi lì che mi reco, con un numero sempre maggiore di amici. Quest’anno la nostra comitiva contava 13 persone! Entrando nella casa-famiglia, si viene letteralmente sommersi dai 158 bambini che ci vivono, accuditi da padre Stefano e da Felicita, dottoressa in pensione e vera madre per tutti questi ragazzi.
Le grida di gioia e i nostri nomi urlati in festosa accoglienza sono una colonna sonora costante. All’inizio i più “gettonati” sono quelli che i bambini conoscono, ma vengono presto e volentieri raggiunti dai “nuovi”, sul cui volto brilla un sorriso sorpreso come a dire: “Cosa ho fatto per meritarmi questo amore?”. La risposta è la più semplice e la più vera: nulla, basta esserci perché ti vogliano bene, perché vogliano giocare con te. In fondo questi bambini, senza genitori, senza cellulare, senza “comfort”, scoprono il senso della vita: amare ed essere amati. Andare ad Ambanja per me è un’occasione unica di riscoprirlo e perciò irrinunciabile.
CLAUDIO
Sono stato per la prima volta in Madagascar con mio figlio nel 2012, chiamati a costruire un pozzo per una missione al Sud del paese: una bella occasione per conoscere una realtà diversa dalla nostra. Ovviamente tutto a nostre spese, anche il pozzo. Arrivati nel paese, siamo rimasti scioccati dalla miseria e dalla mancanza di assolutamente tutto. Ho pianto tanto e sono stato molto male. Finito il pozzo, mio figlio è rientrato in Italia, mentre io, inaspettatamente, ho continuato il viaggio per due mesi, per costruire una centrale elettrica.
Negli anni seguenti sono tornato più volte, perché nonostante tutte le difficoltà, la corruzione, le distanze, la fatica, l’idea di poter migliorare la vita di quella povera gente diventa un rituale di cui non si può fare a meno. Sono cardiopatico: malgrado il rifiuto del mio medico di darmi il benestare per tornare in Madagascar, l’ho fatto lo stesso, ben conscio che, in mancanza di strutture sanitarie di un certo livello, ogni volta metto a repentaglio la mia vita. Mi sta bene così, perché lì io mi sento vivo e questo mi basta per andare avanti.
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