23 Ott 2023

La guerra infinita del Nagorno Karabakh, fra pogrom e crisi umanitarie

Scritto da: Michele Cagnini

Fra le alture del Caucaso si trascina da decenni un conflitto ora a bassa, ora ad alta intensità. È quello del Nagorno Karabakh che vede contrapposte Armenia e Azerbaijan, con alle spalle potenti alleati. Dopo un secolo di lotta la disputa non sembra ancora risolta, ma sono centinaia di migliaia i profughi colpiti da questa guerra.

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Il giardino nero. Così si chiama il libro che il giornalista Thomas de Waal scrisse sulla regione del Nagorno Karabakh o Artsakh, che dir si voglia. Una storia che, come tante, comincia con due popoli che diventano due nazioni e un pezzo di terra tra le montagne che entrambe bramano disperatamente. Siamo nella fascia di terra fra Mar Nero e Mar Caspio, incastrati fra tre giganti della geopolitica mondiale: Russia, Turchia e Iran.

I primi scontri nella regione avvengono già negli anni venti del ‘900, ma a causa dell’espansione sovietica la situazione rimane pressoché congelata fino alla fine degli anni ’80. La politica staliniana era molto semplice e si può riassumere con “dividi et impera”. Infatti nonostante la regione del Karabakh fosse storicamente più vicina all’Armenia, venne inglobata dall’RSS dell’Azerbaijan, con la denominazione di Oblast, ovvero regione autonoma.

IL DRAMMA DEL POGROM

La questione si riaccese in tutta la sua ferocia, il nazionalismo montò furioso da entrambe le parti e considerato il periodo di instabilità in cui versava l’URSS – di cui facevano parte Armenia, Azerbaijan e Artsakh – presto alle parole d’odio tra le due etnie seguirono i fatti. Ci furono infatti numerosi casi di pulizia etnica, ora osteggiati ora supportati dalle forze di sicurezza sovietiche.

nagorno karabakh 1

Il più eclatante fu forse il pogrom di Sumgait. In questa modesta città costiera dell’Azerbaijan tra il 27 febbraio e il 1 marzo 1988 centinaia di azeri armati di spranghe e coltelli si riversarono nei quartieri armeni entrando in ogni casa, uccidendo e saccheggiando. I dati ufficiali azeri contano 32 morti. All’indomani della strage tutta la popolazione armena di Sumgait lasciò la città, per paura di nuove violenze dando inizio al lungo pellegrinaggio di migliaia di uomini e donne, costretti alla fuga per la sola colpa di essere armeni o azeri. Sushi, Yerevan, Baku, Stepanakert: una dopo l’altra tutte le città si svuotarono delle proprie minoranze.

UNA FRAGILE PACE E UNA NUOVA GUERRA

Dopo Sumgait ci furono altri scontri e con essi nuovi episodi di pulizia etnica che costrinsero a intervenire prima le autorità sovietiche e poi il governo del neo-presidente russo Eltzin. Quest’ultimo riuscì a mediare tra il governo dell’Artsakh e l’Azerbaijan, tanto che tra il 20 e il 23 settembre del 1991 vennero firmati degli accordi di pace nella città russa di Zeleznovodsk. La pace sembrò funzionare fino a quando l’elicottero mi-8 azero che trasportava mediatori russi, kazaki e azeri fu abbattuto sopra Karakend. Inutile dire che questo portò alla guerra aperta fra i due stati.

Il conflitto si protrasse dal 1992 al 1994: mentre tutto il 1992 fu un anno positivo per l’esercito azero – venne conquistata quasi la metà del territorio del Nagorno-Karabak –, la situazione si capovolse nel 1993 quando l’esercito di difesa dell’Artsakh, guidato dal mitico comandante partigiano Monte Melkonian, iniziò ad assestare delle importanti sconfitte agli azeri. All’inizio 1994 gli armeni erano in netto vantaggio sui nemici, tanto che il 5 maggio Artsakh e Azerbaijan firmarono un cessate il fuoco a Biskek.

Progetto senza titolo

Il Nagorno Karabakh – “giardino nero” in lingua azera – è una regione contesa situata sull’altopiano armeno, nell’area caucasica. La sua estensione è paragonabile a quella del Molise ed è abitata da circa 140.000 persone. La sua capitale, non riconosciuta, è Stepanakert.

Il trattato aggiungeva circa 12.000 chilometri quadrati al territorio dell’Artsakh, tutti a maggioranza azera, e la fine della guerra diede inizio a una grande diaspora da entrambi i paesi: centinaia di migliaia di azeri abbandonarono le loro case per fuggire in Azerbaijan. Parallelamente molti Karabaki fuggiti in Armenia durante la guerra tornarono alle loro case e molti Azerbaijani di origine armena affluirono nei nuovi territori del Karabakh montano, in fuga da un paese che non li voleva più.

Per molti aspetti la guerra del Nagorno-Karabakh può essere considerata una guerra simile a quella svoltasi nei Balcani e infatti, sebbene con minor frequenza e di minor intensità, furono segnalati diversi episodi di pulizia etnica e presumibilmente ambo le parti si macchiarono di crimini di guerra. Maltrattamento di prigionieri, compiendo esecuzioni sommarie e attacchi indiscriminati a civili e strutture non militari.

LA STORIA RECENTE

Dopo anni e anni di scaramucce di confine lo scontro riprende con tutta la sua intensità nel 2020, coinvolgendo alcuni paesi in maniera indiretta. Oltre alla Russia, che sembra aver imparato perfettamente la lezione dagli USA in materia di economia – infatti Putin vende armi a entrambi i paesi, anche se ufficialmente è alleata dell’Armenia –, l’Azerbaijan può contare sull’appoggio diretto della Turchia di Erdogan, che ha inviato a combattere in Artsakh mercenari estremisti alla stregua dei tagliagole dell’Isis, e di quello indiretto di Israele, che ha fornito armi di ultima generazione all’esercito azerbaijano, già superiore a quello armeno per uomini e mezzi.

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Arayik Harutyunyan

Dalle munizioni circuitanti – i “droni suicidi” – ai mezzi d’assalto israeliani fino ai temibili Bayraktar turchi, le forze armate azere hanno un enorme vantaggio tecnologico. Al contrario, l’esercito armeno ha ben poco su cui contare all’infuori di un rinascimentale sentimento di unità nazionale con l’Artsakh e la determinazione dei suoi volontari. In 40 giorni di conflitto le forze di Baku guidate da Hasanov riescono a circondare la piccola repubblica montana tagliando ogni collegamento con la repubblica Armena, a eccezione del corridoio di Lachin di cui avevo parlato in un articolo precedente.

Si giunge quindi a un cessate il fuoco: il presidente Armeno Pashinyan e quello Karabako Harutyunyan accettano di firmare una tregua che porta a una fragile pace mantenuta da un corpo di interdizione russo. Il presidente dell’Azerbaijan Aliyev approfitta però della pace per riorganizzarsi, ammassare truppe e soprattutto imporre un embargo contro la già provata repubblica. Inizia così un vero e proprio assedio che utilizza sia le forze regolari sia presunti agenti provocatori per bloccare l’unica strada che collega Artsakh e Armenia, creando le condizioni di una crisi umanitaria.

Questo ci porta all’ultimo atto della nostra storia: circa venti giorni fa, tra il 19 e il 20 settembre, le truppe di Baku attaccano nuovamente con bombardamenti su Stepanakert e sulle altre città della repubblica secessionista, provocando anche la morte di una squadra di peacekeeper russi. L’Armenia, senza alleati e già molto provata dal punto di vista politico ed economico, annuncia che non interverrà e il presidente Harutyunyan è costretto ad accettare la resa senza condizioni.

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Foto di Craig F. Walker/Globe Staff, copyright The Boston Globe

La Repubblica dell’Artsakh cessa ufficialmente di esistere, i suoi vertici politici e militari sono arrestati e portati a Baku mentre la popolazione cerca la salvezza in Armenia. Il ricordo dei pogrom degli ultimi quarant’anni è così forte che il 90% degli abitanti scappa verso la madre patria. Sono più di 100.000 le persone in fuga.

Per quanto non sia possibile generalizzare è innegabile che esista in Azerbaijan, come in Turchia, un forte sentimento anti-armeno di origine novecentesca, senza considerare le velleità Panturaniste – pensiero politico che punta a creare un unico grande stato popolato da “turchi” che va dalla Turchia, passa per le repubbliche ex sovietiche e arriva fino alla Cina – che vedono nell’Armenia uno scomodo ostacolo.

È impossibile fare previsioni sul futuro, però è probabile che l’Azerbaijan non si fermerà al Karabakh. Dopo essersi organizzato potrebbe tentare un nuovo colpo di mano nei confronti del nemico storico, magari collegandosi prima con il Naxicivan e poi prendendo tutta l’Armenia. Speculazioni a parte, in ogni guerra quelli chiamati a pagare il prezzo più alto sono i civili e ancora una volta in migliaia sono dovuti fuggire per le velleità di potenza di un dittatore.

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