Emanuele e la sua birra artigianale: “Così ho investito nel mio territorio” – Io Faccio Così #392
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Massa-Carrara, Toscana - Emanuele Sordi apre il suo birrificio nel 2013, per mettere su gambe una passione già sbocciata durante l’adolescenza. Lui, infatti, inizia a produrre birra già a sedici anni, per gioco, insieme ad alcuni amici, con i classici kit da homebrewer per prepararla in casa. Poi la scuola finisce, lui si iscrive all’università e ognuno prende la propria strada.
Nel frattempo Emanuele si laurea e inizia a lavorare nel settore farmaceutico: realizza dopo pochissimo tempo che quello non era il suo destino e fa marcia indietro per ritornare a Pontremoli. E al luppolo. Stende un suo business plan e passa dalla fantasia alla realtà, per investire in un sogno nella sua città natale, Pontremoli. Ecco la sua storia e quella del birrificio del Moro.
Emanuele raccontaci: chi c’è dietro la birra del Moro?
Il nome del birrificio è ispirato a mio nonno: lui era un partigiano, il suo soprannome era “il Moro” ed è proprio a lui che ho dedicato questo mio progetto.
Cosa ti ha spinto a cambiare vita?
Dopo la laurea ho fatto uno stage alla Menarini, dove mi sono reso conto subito che non era ciò che volevo per la mia vita. Così la mia testa è tornata alla birra e ho fatto un mio business plan, cercando di capire come procedere.
E come hai avviato il tutto?
All’inizio questo spazio era un semplice laboratorio di produzione senza tap room; poi ho iniziato a collaborare con un altro birrificio e ci siamo orientati di più sulle fiere. Dopodiché è arrivato il covid, con tutto quello che ne è conseguito. In quei mesi stavamo pensando a come recuperare parte dello scarto della produzione della birra e proprio nel 2020 hanno preso vita le nostre focaccine con le trebbie, ossia ciò che resta dell’estrazione dell’orzo germinato.
Così siete riusciti a lavorare anche in lockdown?
Sì, grazie a questo siamo riusciti a salvarci, senza quest’idea avremmo chiuso. Nel periodo di chiusura totale abbiamo trovato un protocollo di consegna che fosse il più sicuro possibile e siamo partiti con i pacchetti con birre + focaccine. Da lì siamo cresciuti e siamo andati avanti. Oggi siamo molto più pub di quanto non siamo mai stati prima.
Parlaci degli ingredienti e della filiera.
Oltre alle birre classiche, una parte della nostra produzione è strettamente legata al territorio: c’è la birra al miele d’acacia della Lunigiana, per esempio, una con un grano non maltato che mi fornisce un’azienda agricola locale e una Iga wild al mosto d’uva di un produttore vicino. Anche se questo territorio è ancora un po’ indietro sul tema della produzione artigianale, il lavoro è comunque stimolante.
Il motivo per cui ogni focaccina è farcita sul momento è che vogliamo dare massima libertà al cliente, pur rispettando la stagionalità degli ingredienti e delle materie prime che utilizziamo. Diciamo che è per questo che le proposte in blocco in stile menu da pizzeria, magari uguali tutto l’anno, non mi piacevano. Il 90% dei nostri fornitori, poi, è della Lunigiana; per tutto ciò che non viene prodotto qui si cerca di andare il meno lontano possibile a reperire ciò che serve in cucina.
Parlaci della circolarità e di come nascono le tue focacce alle trebbie.
Sono una persona a cui piace molto l’idea di dare nuova vita a ciò che viene normalmente considerato scarto. Come vedete qui ci sono tubi Innocenti, panche con legno di recupero. E anche le nostre focacce sarebbero tecnicamente uno scarto che invece abbiamo voluto valorizzare. Parlando di numeri: quando produco 500 litri di birra, ho uno scarto di circa 130 chili di materia secca da smaltire.
Un panettiere di Pontremoli mi aveva proposto di recuperare i miei lieviti, ma la cosa non ha funzionato. Ora utilizza le mie trebbie, le essicca, le impasta e ci consegna le focaccine semicotte. Noi ultimiamo la cottura qui e poi le farciamo sul momento. Il bello è che il gusto delle focacce è unico e ogni volta è differente, perché dipende dal tipo di produzione di birra – che cambia a seconda del malto utilizzato – da cui abbiamo recuperato le trebbie.
Come si è evoluto il tuo progetto in questi anni?
Ho fatto alcuni errori che nel tempo ho corretto: l’idea iniziale di produrre e imbottigliare e basta non era giusta. Sono state le focaccine a dare linfa nuova al progetto che ora, grazie a questa evoluzione, è diventato non solo un luogo di produzione ma anche un punto di ritrovo dove fare aperitivo, incontrarsi, passare del tempo insieme e mangiare in compagnia.
E gli obiettivi futuri?
Innanzitutto voglio eliminare del tutto la plastica, poi cercare di abbattere l’impatto sull’utilizzo di acqua durante la produzione, in fase di raffreddamento. Stiamo cercando di ottenere i permessi dal Comune per prelevare l’acqua di fiume, utilizzarla per abbassare la temperatura e poi restituirla, ovviamente senza lavorazioni, alla natura. E poi vogliamo crescere, proporre serate con musica dal vivo, incontri culturali e ingrandirci con qualche idea interessante.
Parliamo di confini: qual è la tua percezione qui, un limite o un’opportunità?
Per me il concetto di confine è qualcosa di assolutamente necessario. Non è positivo né negativo: il confine è una possibilità che ti permette di metterti in gioco per capire se per te vale la pena fare quella tale cosa oppure no. Nella realtà dei fatti per me è una figata assurda perché ti offre possibilità infinite.
La Lunigiana è un posto bellissimo, ma c’è poco, quindi puoi portare le tue idee innovative senza creare doppioni, in un luogo che ha i costi di un paese che però, essendo di confine, si trova vicino a posti che offrono tanti servizi diversi a una distanza relativa. Questo territorio avrebbe le carte in regola per fare tutto, sono i lunigianesi, però, i primi a non crederci.
Qual è il problema?
Manca innanzitutto consapevolezza, anche se mi sembra che la mentalità stia pian piano cambiando ora. Io sento ancora tanti ragazzi dirmi: “Eh, ma sai, qui in Lunigiana…”. Ecco, l’autocommiserazione a vent’anni non va bene.
Tu che sei nato e cresciuto qui hai un modesto campione di esperienze relativo alla tua età: quanti tuoi compagni di scuola sono rimasti e oggi vivono qui in Lunigiana?
Come residenti siamo solo in due, alcuni usano questa zona semplicemente come dormitorio; tutti gli altri hanno trovato lavoro fuori, chi a Pisa, Parma, Piacenza o Milano. Come abitante del luogo per me il maggiore problema è che dopo la maturità, salvo chi intraprende una carriera accademica specifica oppure chi ha ovviamente una famiglia da mantenere, qui si tende ad accettare il primo impiego che capita.
Questo, però, mi sento di dirlo, è un problema culturale che abbiamo solo in Italia. Ti lanci in un’idea, ti auguri che ingrani e che tutto vada bene, ma non sempre è così, per mille ragioni diverse. Se questo non accade ti senti uno sfigato. Nella realtà dei fatti il punto è che tu ci hai provato, hai investito tempo e denaro e hai fatto tanto, perché innanzitutto ti sei tolto dalla tua comfort zone. Anche se non va come previsto, è stata comunque una crescita sul piano personale.
Cosa potrebbe motivare i ragazzi a restare, secondo te, e a investire in questo territorio? Degli incentivi per avviare delle nuove imprese?
Secondo me dei bonus per incentivare l’imprenditoria giovanile potrebbero essere utili, ma il problema è che si parte sempre dalla fine. I costi dell’affitto, per esempio, sono soldi da tirar fuori ogni mese e per quanto possa essere “poco”, io questa consapevolezza non l’avevo chiara in testa. Partiamo, quindi, a fare formazione scolastica che prepari i ragazzi anche a gestire al meglio un’eventuale attività in proprio. L’obiettivo della scuola non dovrebbe essere farli studiare affinché diventino solo dipendenti di qualcuno.
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