Gestione dei boschi italiani: cambia la legge, è il momento della verità
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Ormai è diventata una sorta di caccia alle streghe. Dove la politica non riesce a pianificare in modo serio e lungimirante lascia che siano i livelli amministrativi a risolvere problemi complessi con il conseguente intreccio di accuse, ricorsi incrociati e altre forme di conflitto. È quello che è accaduto con l’annullamento della cosiddetta doppia autorizzazione paesaggistica per i tagli selvicolturali ricadenti nelle aree soggette a tutela in base all’articolo136.
LA PROPOSTA
Nel merito, nel suo emendamento l’Onorevole De Carlo ha proposto una modifica normativa al Codice dei beni culturali e del paesaggio all’articolo 149, comma 1, lettera c) del Codice. Laddove la norma descrive le deroghe alla preventiva autorizzazione paesaggistica, si esplicita chiaramente che tali deroghe – che fino ad oggi valevano soltanto per i boschi vincolati dall’articolo 142 (Aree tutelate per legge) – verranno estese anche ai boschi vincolati dall’articolo 136, ovvero quelli ubicati nelle aree considerate di “notevole interesse pubblico” e definite da decreti ministeriali specifici, le famose foreste sottoposte a “doppio vincolo” paesaggistico.
GESTIONE FORESTALE: UNA QUESTIONE APERTA
La polemica su cosa vuol dire una corretta gestione forestale va avanti ormai da molto tempo, soprattutto da quando con l’approvazione del Testo Unico in materia di foreste e filiere forestali – di cui al Decreto Legislativo 34 del 3 aprile 2018 – si sono acutizzate alcune contrapposizioni già latenti tra i fautori di una gestione forestale più produttivistica e quelli più attenti al ciclo lungo della conservazione. Produttivista e conservazionista sono definizioni che usano i due fronti per accusarsi a vicenda – che brutta parola “fronte”, ma oggi sembra che tutto sia contrapposizione e non dialogo.
Possiamo dire che quest’ultima polemica, a valle della modifica di cui sopra, appare marginale rispetto al problema reale di una gestione forestale statale, regionale e comunale che fa acqua da tutte le parti. Il problema di fondo è capire quale gestione mantiene e migliora di più nel tempo il patrimonio forestale di qualità rispettando il valore ecologico del bosco.
Da una brava sovrintendente, che mi ha chiesto di non essere citata, arriva la sottolineatura per cui i controlli dovrebbero essere ordinati in primis dalle Regioni e dalla forestale, assenze molto gravi anche per il prezioso patrimonio arboreo in ambito urbano. Sempre secondo la sovrintendente, si invocano malattie o instabilità degli alberi per fare tagli irrazionali in piazze e strade pubbliche che hanno nel loro insieme un valore monumentale.
Le alberate che hanno più di settant’anni sono tutelate ope legis perché hanno un valore culturale e quindi sono di competenza delle sovrintendenze, le quali però sono spesso in difficoltà nel fare rispettare la legge. La crescita dell’industria del cippato purtroppo non fa che aumentare un taglio produttivo di bosco povero, danneggiando la crescita di legno di qualità che interessa la filiera del legno d’opera.
QUALCHE IDEA
Sarebbe il caso di ripartire da un concetto fondamentale a cui ogni convincimento dovrebbe attenersi. Il bosco è prima di tutto un ecosistema naturale che, come è successo nelle passate ere geologiche e financo storiche, non ha certo bisogno dell’utilizzo e ancor meno sfruttamento dell’uomo per riprodursi e rigenerarsi. Come ogni risorsa naturale il patrimonio boschivo e forestale – anche qui il TUF fornisce una definizione non da tutti condivisibile – ha poi trovato da sempre un utilizzo più o meno razionale fondamentale a garantire le economie locali e di scala, ma oggi più che mai una gestione corretta non può che essere quella che è maggiormente coerente con il contrasto ai cambiamenti climatici.
PRODUTTIVISTI VS CONSERVAZIONISTI
Il novero dei fautori di una gestione più produttivistica – di cui fanno parte la rivista Sherwood, l’UNCEM e altri soggetti pubblici e associativi che hanno da sempre sostenuto la validità del Testo Unico – ritengono il gruppo che ruota intorno al GUFI e altri pezzi di mondo accademico e forestale dei conservazionisti che, essendo contrari alla pratica colturale del ceduo, danneggiano e economie delle comunità locali.
Secondo la visione dei fautori del Testo Unico, le tutele ambientali e paesaggistiche vengono già garantite dalla legislazione nazionale e da quella regionale e quindi è inutile andare ad inserire altri lacci e laccetti. La loro posizione, favorevole alla diffusione spinta della coltivazione a ceduo, si basa tra l’altro sul raddoppio della superficie forestale dal secondo dopoguerra a oggi: da 5 milioni di ettari a 11 milioni, dato che non tiene conto della differenza tra superficie e biomassa e della qualità del boschi.
Purtroppo le posizioni si sono incancrenite e si è chiuso qualsiasi spazio di confronto per arrivare a una sintesi alta in cui la centralità di una nuova gestione dovrebbe essere il valore ecologico del bosco nel suo complesso. La parte che potremmo chiamare più conservativa attribuisce un ruolo centrale alla coltivazione ad alto fusto, così come viene fatto in Francia, Germania, Austria e Svizzera da quasi 200 anni o come è stato fatto in Trentino e in Alto Adige.
ALTO FUSTO: SÌ O NO?
La coltivazione ad alto fusto che non esclude nel modo più assoluto la silvicoltura a ceduo – secondo Alessandro Bottacci, forestale ed ex Direttore del Parco delle Foreste Casentinesi – è quella che racchiude tutti i valori ecologici di cui abbiamo bisogno, coerentemente con la logica dei servizi ecosistemici. Un bosco ad alto fusto permette, attraverso un’oculata gestione forestale, di ridare al nostro Paese una disponibilità di legname d’opera, quindi di qualità, che oggi importiamo dalla Romania e altri Paesi.
La biomassa vegetale ricavata dalla coltura a ceduo oggi viene utilizzata come legna da ardere o per impianti per la produzione di energia. Un bosco ad alto fusto ha una massa vegetale di 340mc/ha mentre nella maggior parte dei boschi a ceduo siamo alla metà e in alcune situazioni anche a meno. La biomassa vegetale per ettaro incide anche sull’assorbimento della CO2 dando un forte contributo la qualità del suolo, che nei boschi maturi o addirittura vetusti è molto più elevata.
Un bosco ad alto fusto – dato più che oggettivo – ha una maggiore capacità di trattenere il terreno e quindi prevenire i sempre più diffusi piccoli, grandi dissesti idrogeologici. Insomma secondo quelli che la parte avversa definisce conservazionisti, dando a questa definizione un’accezione negativa, la coltivazione ad alto fusto otterrebbe risultati molto più significativi in quelle che oggi sono le battaglie più importanti: mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici e prevenzione dai dissesti.
LA QUESTIONE RIMANE APERTA
Un patrimonio forestale con un maggiore equilibrio ecologico è quello che garantisce una risposta economica più vantaggiosa anche sul fronte dei servizi ecosistemici se solo si arrivasse a renderli davvero operativi. Nei servizi ecosistemici rientra non solo il valore materiale del patrimonio forestale, ma anche i vantaggi immateriali e spirituali che determinano oggetti benefici psico-fisici – pensiamo alla diffusione della Forest Terapy e non solo.
Va ricordato che l’attuale gestione forestale riceve molti contributi dal PSR – il Piano di Sviluppo Rurale – altrimenti, secondo molti esperti forestali, non sarebbe sostenibile. Basterebbe trasferire quote di incentivi attraverso il PSR e i Servizi Ecosistemici per una silvicoltura che mira alla riqualificazione di boschi e foreste verso un aumento della biomassa per ettaro per indennizzare l’eventuale mancato o ridotto taglio a ceduo sostenendo così a livello economico le comunità locali. Va ricordato che il taglio a uso famigliare non verrebbe comunque danneggiato da una politica più accorta e lungimirante.
Insomma il punto fondamentale su cui torneremo è quello di mettere in campo una politica forestale più virtuosa a livello statale e regionale che sposi senza se e senza ma gli innegabili benefici ambientali con ricadute positive a livello economico e sociale. Per molti il TUF approvato qualche anno fa purtroppo non va in questa direzione.
Va detto che esistono anche esperienze positive, come quella di cui mi riferiva un bravo boscaiolo marchigiano che prevede corsi di formazione al taglio virtuoso rivolti ai giovani con una particolare attenzione alla conoscenza diretta del patrimonio forestale locale. Sempre dallo stesso boscaiolo illuminato ho potuto apprendere che la Regione Marche, dando finalmente un segnale positivo, ha destinato a coltura ad alto fusto altri 8000 ettari, mentre continuano a essere sbilanciati verso i grandi tagli i bandi di centinaia di migliaia di euro a cui i piccoli non possono accedere.
Insomma, non c’è dubbio che la gestione forestale nel suo complesso andrebbe rivista in modo radicale, soprattutto per quanto riguarda i controlli, oggi praticamente assenti; ma allo stesso tempo esistono esperienze virtuose che riguardano la coltura a ceduo, ad alto fusto e il mantenimento dei boschi vetusti e da queste esperienze, che Italia Che Cambia cercherà di raccontare, bisognerebbe ripartire per un’effettiva “conversione ecologica” nell’uso e fruizione dei boschi.
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