28 Set 2023

Slow Food Calabria: andiamo oltre gli stereotipi e proiettiamoci nel futuro

Scritto da: Tiziana Barillà

«La Calabria, per una volta, non è ultima della classe», scherza Michelangelo D’Ambrosio che di Slow Food Calabria è il presidente. Insieme a lui abbiamo fatto il punto della situazione nella regione, tra stereotipi e una resistenza culturale che non ha ancora piegato i calabresi al cibo spazzatura e alle logiche commerciali della grande distribuzione.

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A tavula e tavulinu si canusci u cittadinu, recita un vecchio proverbio meridionale, suggerendo che la persona civile si riconosce dal suo comportamento a tavola. Dare il giusto valore al cibo «praticando e diffondendo il rispetto verso chi lo produce in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali». Significa questo esercitare il diritto a un cibo buono, pulito e giusto per tutti. Un tassello irrinunciabile nella ricerca della felicità che il movimento Slow food promuove dal 1986 attraverso reti tematiche, coalizioni internazionali e presidi in tutta Italia.

«Ogni regione ha un approccio diverso alle tematiche di fondo che caratterizzano il nostro movimento, e la Calabria, per una volta, non è ultima della classe», scherza Michelangelo D’Ambrosio che di Slow Food Calabria è il presidente. Con lui facciamo il punto della situazione nella regione, tra stereotipi e una resistenza culturale che non ha ancora piegato i calabresi al cibo spazzatura. 

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La nostra è una regione immensa eppure ha solo un milione e 800.000 abitanti; più della metà è concentrata nell’area della provincia alta di Cosenza e il resto sparso nel resto del territorio. È un vantaggio per il sistema agricolo e quindi per la produzione agroalimentare?

Potrebbe sembrare un vantaggio, ma non lo è. Dal punto di vista geomorfologico la Calabria è una regione molto complessa, le aree appenniniche sono ormai avviate a un processo di desertificazione importante che negli ultimi anni è diventato ancora più intenso. I segnali di questo arrivano da quelli che potrebbero sembrare eventi straordinari della natura e invece sono un sintomo dell’assenza dell’uomo. La montagna calabrese non è viva e piano piano sta sempre di più dissanguandosi, ma contiene una storia e risorse importanti da preservare e portare avanti. 

Il ritorno a mestieri antichi e produzioni agricole da parte delle giovani generazioni è un trend europeo degli ultimi anni. Si parla spesso di “antico 2.0”, quindi di tradizione innovata. 

Anche noi seguiamo il trend europeo, mestieri e produzioni agricole, però non devono essere per forza del tutto innovative. Spesso e volentieri ci ritroviamo a ragionare sul fatto che il futuro era già presente nel passato, che l’innovazione non funziona senza la tradizione e viceversa. Perciò il lavoro di Slow Food in Calabria parte dalle comunità. Giusto per citare il fondatore di Slow Food, Carlo Petrini, le comunità anticipano il futuro perché nella loro vita interna si basano su un modello di cooperazione che è quello a cui dobbiamo guardare.

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Nella nostra terra, oltre alle tradizionali olivicoltura e vinicoltura, negli ultimi dieci anni si investe anche nel ripristino di un vecchio ruolo: in passato la Calabria è stata granaio del Sud Italia, abbiamo infatti delle aree immense vocate alla produzione di grano e in questo momento non coltivate. Alcune comunità stanno riscoprendo questo elemento importante per la nostra terra, mettendo insieme le filiere corte, trasformatori, panificatori, vie d’accesso ad altri ambiti come le birre. 

È un lavoro di recupero anche delle memorie e dei saperi, immagino.

Sì, ma facendo attenzione. Quando le memorie, perciò le identità, diventano il contenuto e non il contenitore, è un grave problema perché alziamo palizzate, ci difendiamo. Quale memoria più intensa e profonda abbiamo se non quella delle nostre minoranze – grecanica, arbereshe e occitana – che hanno mantenuto integra per secoli una cultura dell’altrove? Occorre considerare questo come un’opportunità per proiettarsi nel futuro ed evolvere, in altre parole “coscientizzare” quella identità non può diventare solo un fatto museale.

Presidente dal 2020, ma attivista slow food da 15 anni. Dalla tua prospettiva come vedi lo stereotipo – positivo, per una volta – per cui in Calabria si mangia bene. È davvero così? 

Sì e no. Cè uno stereotipo che vede la Calabria come uno scrigno, che ci vede ricchi soprattutto di materie prime. E questo è vero. D’altra parte il rischio di essere stereotipati fa sì che anche questa verità venga ovattata. Un esempio è il peperoncino che, come la patata o il pomodoro, non è un prodotto della nostra terra. Di peperoncino ne abbiamo tanto e ne piantiamo tantissimo, ma i semi arrivano da altri paesi, soprattutto da Thailandia e Messico.

Si dovrebbe cominciare a ragionare in maniera diversa: se il consumatore è anche coproduttore, da questa collaborazione potremmo trarre tutti vantaggio

Noi siamo cultori dell’uso del peperoncino e questo ha una sua ragione antropologica: siamo una montagna su due mari in mezzo al Mediterraneo, quindi soggetta a una serie di variazioni o diverse condizioni climatiche, dalla neve al mare, in pochissimi chilometri e tra venti di ogni tipo. Questa condizione ci ha portati alla necessità delle conserve e il peperoncino è un conservante naturale. Gli stereotipi poi subiscono la spettacolarizzazione. Succede nella cultura, nella musica e anche nel cibo. Si spettacolarizza un prodotto o una lavorazione e la si fa diventare per certi versi ridicola. Ecco che la Calabria non ha un peperoncino autoctono eppure abbiamo l’Accademia, i festival, eccetera.

Torniamo al cibo e all’adagio che “mangiar bene costa troppo”.

Mangiare male e produrre male porta a un costo che prima o poi pagherai. I terreni del grano sono a grosso rischio idrogeologico, perciò ogni ettaro di terreno vocato al grano non curato, non coltivato, è soggetto a smottamenti e allagamenti. I disastri ambientali sono un problema sociale, un costo sociale che paghiamo tutti. Se quel terreno ha un contadino che lo cura, diminuiscono i costi sociali.

Senza contare che la farina industriale è molto pericolosa per la salute umana, vi sarete accorti che è pieno di gente con intolleranze e che nei menu oramai c’è l’obbligo di legge di indicare i prodotti ad alto contenuto allergenico. Le farine industriali procurano spesso intolleranze perché sono “spinte” in maniera chimica, come la famosa Manitoba. E allora siamo costretti a ricorrere a cure, specialisti e diete. Altri costi sociali. Si dovrebbe cominciare a ragionare in maniera diversa: se il consumatore è anche coproduttore, da questa collaborazione potremmo trarre tutti vantaggio. 

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Al netto degli stereotipi e dell’attrattiva turistica, i calabresi hanno smesso di mangiare bene? 

Non ancora. È un processo in atto ma non così pesante quanto in altri luoghi. Per darvi un’idea vi racconto un aneddoto. Per costruire i display – e cioè gli scaffali – i gruppi di GDO seguono criteri tecnici con una struttura precisa: altezza d’occhio, più basso o più alto e così via. Anni fa incontrai un impiegato che aveva messo i salumi in una posizione di pregio, perché l’indicatore diceva che in Calabria si consumano molti salumi. Il risultato fu che quei salumi non li vendevano, perché qui c’è ancora autoproduzione, si va ancora dal macellaio e meno al supermercato. Di conseguenza, la qualità dei prodotti che mangiamo è sicuramente superiore a quella della grande distribuzione. 

Ma il processo di erosione è in corso, perché la vita ci costringe sempre a correre. Al Sud abbiamo i nostri ritmi, ma subiamo un contro-ritmo che non è il nostro ed ecco che arriva il problema sociale della depressione e della frustrazione. D’altronde la Calabria ha sempre avuto un ritmo orizzontale, anche le nostre transumanze sono sempre state da est a ovest, qualcuno all’improvviso ci ha fatto guardare la Calabria da nord a sud. E in quel momento abbiamo perso parte di noi.

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