Da Brassens all’anarchia, alla guerra: dialogo con Alberto Patrucco
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Monza, Lombardia - Alberto Patrucco comedian, cantante e scrittore – noto per lo stile anticonformista – ha sempre fatto della sua voce profonda e della sua puntuale gestualità uno strumento tagliente e allo stesso tempo raffinato, centrando l’obiettivo di trattare temi inusuali per trascinare alla risata liberatoria. È anche noto per aver partecipato ad alcuni programmi televisivi e oggi, in teatro, oltre alla sua verve umoristica, porta parte del patrimonio poetico e musicale di Georges Brassens.
AbBrassens è un progetto artistico di Alberto Patrucco dedicato alle opere meno tradotte e interpretate nella lingua di Dante del grande cantautore francese, all’ombra del quale si sono ispirati numerosi artisti italiani e fonte di ispirazione, tra gli altri, del nostro mitico Fabrizio De André. L’album AbBrassens, uscito il 9 giugno 2023, con lo stesso titolo del libro scritto a quattro mani con Laurent Valois e pubblicato il 22 ottobre 2021 da Paginauno Edizioni a cent’anni dalla nascita del geniale chansonnier, è il risultato dell’appassionato studio di Patrucco sull’originale modo di fare canzone di un artista unico, considerato tra i più grandi poeti del Novecento. Irrispettoso del comune sentire, estraneo alle mode e fuori dal tempo.
Come ti vedi in questo ruolo di istrionico menestrello che tramanda un’eredità musicale, di testi e di contenuto ideale e valoriale così imprescindibili per la nostra cultura come quella dell’anarchico Brassens? Cosa rappresenta per te questo grande artista?
«Brassens – diceva De André – per me è stato un mito, come artista e come uomo. Per me equivaleva a leggere Socrate: insegnava come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi». L’incontro artistico col cantautore di Sète cambiò drasticamente lo stile musicale di De André, tanto da tradurre diversi brani in italiano – Il gorilla, Le passanti, Morire per delle idee; Delitto di paese, Nell’acqua di chiara fontana, Marcia nuziale… ma si pensi a quanto c’è di Brassens in canzoni come la storia di Marinella, Il testamento, La città vecchia, Bocca di rosa… –, cantando le parole di colui che poi chiamerà “il mio Maestro”.
Nel mio piccolo Brassens è un punto di riferimento, è la mia passione letteraria-musicale di sempre. Però ci tengo a sottolineare che quello che porto in scena non è uno spettacolo su Brassens, ma con Brassens. I brani che ho tradotto in italiano sono la “colonna sonora” di uno spettacolo che, a prescindere, ha una sua vivacità, una sua narrazione. Un percorso che mette in risalto, nonostante in taluni casi le canzoni originali siano state scritte più di settant’anni fa, una sorprendente sintonia col presente e che ci restituisce tematiche sempre attuali e, se possibile, ancor più affilate dal confronto con la quotidianità dell’oggi. È un abbraccio, un incontro.
L’incontro – mi piace dire – tra il mio discutibile modo di intendere il monologo umoristico e l’indiscusso disincanto poetico di uno dei padri della canzone d’autore che, palesemente o velatamente, ha dato – e continua a dare – a molti artisti la possibilità di dire: lei non sa chi suono io. Nessuna celebrazione brassensiana, dunque, bensì l’idea di unire, seppure in epoche storiche diverse, sensibilità tanto affini; punti di vista che coesistono in perfetta armonia, proprio grazie al tessuto connettivo della musica. Lo spunto per suscitare emozioni diverse su temi non banali e stimolare nel divertimento qualche momento di riflessione.
In AbBRASSENS, la non-biografia di Georges Brassens come ami definire il tuo libro, “Questo non è un anarchico” è il bel capitolo dedicato al suo modo di esserlo. Come si rapportava il buon Maestro con l’anarchia? Prova a dire del rapporto tra la sua musica e il suo sentirsi anarchico.
Detto che Brassens è stato un insolito e raro esempio di armonia fra apparire e essere, tra espressione artistica e vita privata, il 6 gennaio 1969, durante l’unico e memorabile incontro organizzato dal giornalista François René Cristiani fra i tre mostri sacri della canzone francese – Georges Brassens, Jacques Brel e Léo Ferré – Brassens dichiara: «È difficile da spiegare, l’anarchia. Gli stessi anarchici fanno fatica a spiegarla. Quando ero nel movimento anarchico […] tutti avevano dell’anarchia un’idea totalmente personale. Questo inoltre, è quello che è esaltante, è che non esiste un vero e proprio dogma. È una morale, un modo di concepire la vita, io credo, e che dà priorità all’individuo».
Brassens sceglie di vivere l’anarchia a modo suo, di adeguare l’ideale alla sua individualità. Non si rifà ad alcun movimento in particolare ma, com’è nel suo stile, non abbraccia un’ideologia, preferisce che l’ideologia abbracci lui. Affermava: «Mi sono costruito la mia umanità da solo, senza seguire nessun metodo. […] Il mio individualismo d’anarchico è una lotta per conservare il mio pensiero libero»; e sosteneva, «amo il pensiero solitario, detesto le pecore».
Il suo anarchismo singolare è incline alla satira e all’ironia. Sembra volersi rivolgere al “nemico giurato”, il benpensante conformista, con il classico motto “una risata vi seppellirà”. Diceva divertito: «Sono talmente anarchico che attraverso sulle strisce pedonali, per non avere a che fare con la gendarmeria». Questo suo istintivo legame agli ideali libertari è presente in tutte le sue canzoni, anche in quelle apparentemente spassionate. Grazie alla sua sagacia e lungi dal voler fare del proselitismo politico attraverso le sue canzoni, il termine “anarchia” compare una sola volta in tutta l’opera poetico-musicale di Brassens, e precisamente in Hécatombe (Ecatombe) incisa per la prima volta su vinile a settantotto giri nel 1952.
Allo stesso modo il suo marcato individualismo si traduce musicalmente nel rifiuto di sottomettersi alle regole artistiche e commerciali di ricorrere a orchestrazioni e arrangiamenti unicamente destinati a fare cassetta. La fedeltà alla formula due chitarre e contrabbasso di per sé non ha nulla a che fare con l’anarchia, ciò nonostante illustra perfettamente il totale disprezzo di Brassens per gli imperativi commerciali o per la soddisfazione dei supposti gusti estetici del “grande pubblico”.
Tu conoscevi Paolo Finzi e Rivista Anarchica. Quali rapporti hai avuto con questa importante realtà editoriale che ancora oggi lascia un ricordo e un portato culturale indelebile?
Conoscevo Paolo, ci siamo visti in diverse occasioni. Ma ben prima di incontrarlo, già conoscevo la “sua” Rivista. Ero un assiduo e appassionato lettore di “A”. Che dire? Con le dovute differenze, a causa della dolorosa scomparsa di entrambi, mi manca la possibilità di potermi confrontare con un punto di vista o, più in generale, con un modo di intendere l’informazione e l’informare, alto, mai gridato e, soprattutto, “non allineato”. Comunque la si pensi, non è poca cosa.
Raccontaci quale è stata la tua esperienza sul palcoscenico televisivo di Zelig.
Vorrei avvalermi della facoltà di non rispondere, non amo “parlarmi addosso”. Ad ogni modo, avendo fatto parte del cast di quella trasmissione per un periodo di tempo, è innegabile che questo abbia contribuito a farmi conoscere – e dimenticare – da un “folto” pubblico. Da qui a dire che sia stata una passeggiata ce ne corre. Fare satira, o quanto meno provarci, in un programma televisivo commerciale, di cassetta, completamente “de-satirizzato” e, molestia a parte, ottenere un discreto successo, è stato piuttosto complicato. Tra l’altro, di volta in volta, dovevo elaborare un insieme di scelte e di accorgimenti sul testo affinché, tra la registrazione e la messa in onda, quel che avevo registrato non passasse di moda.
Sembra incredibile ma, a terzo millennio ampiamente avviato, oltre a quella Russia-Ucraina nel mondo sono in atto tantissime guerre. Partendo da una tua battuta, “siamo immersi in una polveriera schiacciata sui poli e con la miccia lunga fino a Mariupol…”, dimmi qualcosa del pacifismo “brassensiano”.
Numerose sono le composizioni nelle quali Brassens denuncia, a suo modo, la follia della guerra. Alcune di queste poi hanno fatto molto discutere e provocato indignazione. Il sentimento antimilitarista, radicale, totale, assoluto, di Brassens è chiaramente espresso in molte canzoni: La mauvaise réputation (La cattiva reputazione), La mauvaise herbe (L’erbaccia), La guerre de 14–18 (La guerra del 14–18), Les deux oncles (I due zii)… solo per citarne alcune. Nel libro ne parlo, o meglio, ne parliamo in modo dettagliato.
Avendo in orrore ogni forma di fanatismo, disprezzando ogni espressione di violenza e avendo troppa considerazione per gli individui, “nessuna idea è degna di una morte” è il concetto che, più o meno con le stesse parole – cosa alquanto insolita per uno così attento a non ripetersi – fissa tra i versi di due sue celebri canzoni: Les deux oncles del 1964 e Mourir pour des idées (Morire per delle idee) del 1972.
Allo stesso modo il suo altruismo e la sua ampiezza di vedute lo spingono a stare senza ipocrisie dalla parte degli ultimi, degli esclusi, dei poco di buono. E con il suo stile autentico, l’approccio originale agli argomenti, il non atteggiarsi mai a moralista, offre a loro affetto e solidarietà, la sua musica e la sua poesia.
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