L’appello per l’Appennino Romagnolo, abbandonato dalla politica
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Forlì, Emilia-Romagna - C’è rabbia e sconforto nelle parole di Gianni Fagnoli, imprenditore agricolo a Rocca San Casciano (FC), oggi dolorosamente testimone dei danni inestimabili che l’alluvione in Romagna ha causato nel suo podere I Fondi. Un presidio di agroecologia, «un autentico tesoro», lo descrive Fagnoli con ancora davanti agli occhi le devastanti conseguenze del dissesto idrogeologico.
Il suo podere – di tredici ettari, di cui dieci di bosco – è il risultato di anni di lavoro e sacrifici. Il faticoso riscatto da un impiego precario e dalle false promesse di ottenere un contratto migliore. Quando con la sua famiglia aveva deciso di trasferirsi sull’appennino, si era reinventato agricoltore, come ci aveva raccontato in un’intervista di qualche tempo fa. «L’enclave coltivata tra gli ettari di bosco – ci racconta – è stata destinata sin da subito alla selvicoltura e al recupero di cultivar di piante e alberi da frutto antichi e perduti della Romagna».
TUTTO SVANITO
Gianni Fagnoli è riuscito col tempo a far rivivere un patrimonio di biodiversità destinato a perdersi per sempre per via dell’agricoltura intensiva e dell’abbandono di questi territori. «Il mio sogno è sempre stato quello di rimettere in produzione queste varietà, non solo custodirle». Lo scorso maggio, l’alluvione che ha duramente colpito la Romagna ha spazzato via il lavoro e i sacrifici di anni impiegati per realizzare questo piccolo sogno di resistenza e custodia.
A circa duecento metri di dislivello dal crinale, il podere I Fondi è stato travolto da intere particelle di bosco che si sono distaccate a causa delle frane, travolgendo qualunque cosa si trovasse lungo la loro traiettoria. «Dei pini neri alti circa trenta metri, dal crinale hanno percorso quasi mezzo chilometro, trascinando altre piante, cisterne, attrezzi da lavoro», ha raccontato Fagnoli.
Da allora, la rete stradale che collega i Comuni dell’Appennino continua a essere interrotta, condannando all’isolamento intere comunità e aziende agricole come la sua. «Riesco a raggiungere il podere solo a piedi – ha aggiunto – e non avendo più alcun attrezzo agricolo, sono costretto a fare tutto a mano, compreso lo sfalcio e qualsiasi altro lavoro di manutenzione necessario».
L’ABBANDONO DELLA POLITICA
Con grande amarezza, Fagnoli denuncia che la catastrofe peggiore forse non è stata l’alluvione, quanto piuttosto l’abbandono totale dell’Appenino Romagnolo da parte della politica. Da quando infatti i riflettori mediatici si sono spenti su questo territorio, le passerelle di autorità e volti noti si sono fatte sempre più rade, l’attenzione generale, così come la volontà a intervenire con urgenza, hanno ceduto il passo all’inerzia e alla dimenticanza.
«Se ne parla sempre meno eppure qui continuano a esserci versanti ancora completamente erosi, strade interrotte o dissestate, comunità isolate», racconta Fagnoli. «Questa è una terra da tempo affetta da un’inarrestabile emorragia demografica, oggi persino oggetto di rappresaglie politiche giocate sulla pelle di noi abitanti. Se non si interviene rapidamente, questo territorio sarà destinato a spopolarsi per sempre. Sarà molto difficile risollevarsi, senza il sostegno dello Stato».
Primo forse di numerosi eventi climatici estremi più o meno prevedibili, l’alluvione in Romagna, a distanza di quasi cinque mesi, richiede uno sforzo economico e una strategia politica ben diversi da quanto messo in campo finora, tra inammissibili ritardi e colpevole inazione. Non si può affatto pensare di proteggere le città in pianura, trascurando la montagna. «Si dice “proteggi la pianura e assicuri la montagna”. Perché frana chiama frana: è una questione gravitazionale».
IL TIMORE DELL’AUTUNNO
Ripensando all’alluvione, Fagnoli definisce quasi «una fortuna» il fatto che quella quantità d’acqua sia precipitata a maggio, in piena stagione vegetativa delle piante, quando cioè sono in grado di assorbire maggiori quantità d’acqua e la tenuta del terreno è migliore. «Il problema è che siamo con l’autunno alle porte e ancora queste zone non sono state messe in sicurezza», ha commentato.
Ad oggi l’Appennino e le sue comunità sono ancora dilaniate da una ferita aperta. È questa la metafora che Fagnoli utilizza nell’appello per l’Appennino Romagnolo, sottoscritto da oltre trenta realtà della zona per richiamare l’attenzione su questo territorio fragile e trascurato. L’appello è un’unica voce che raccoglie quella delle comunità romagnole delle quattro vallate forlivesi – Bidente, Rabbi, Montone e Tramazzo/Marzeno –, le più colpite dall’alluvione e dall’inerzia politica.
Di fronte al disfacimento di intere sezioni orografiche si sarebbe dovuto intervenire innanzitutto sui versanti appenninici, in quanto aree strategiche ,per la messa in sicurezza del territorio. «E invece non solo siamo stati dimenticati, ma molti cittadini e imprenditori di queste zone si sono rimboccati le maniche e lo hanno fatto di tasca propria, senza aspettare i soccorsi promessi dalla politica».
UN APPELLO ALLA MOBILITAZIONE
L’appello per l’Appennino Romagnolo è innanzitutto una richiesta di «rispetto», per un territorio e i suoi abitanti, completamente abbandonati a loro stessi. «In tre mesi siamo riusciti a mettere in piedi qualche iniziativa e a far sentire la nostra voce, ma non basta», ha commentato Fagnoli. L’appello per l’Appennino Romagnolo aveva anche ricevuto in prima battuta il sostengo dell’Unione dei Comuni della Montagna Forlivese senza distinzione di colore politico, ma anche in quella circostanza il fronte comune si è sgretolato dopo poco.
«Vorremmo organizzare una mobilitazione di massa, un corteo che riporti al centro le istanze e la rabbia della società civile», ha concluso Fagnoli. «Questa è storicamente una terra di battaglie, lotte civili: oggi non riusciamo neppure a far valere i nostri diritti. Nell’appello c’è un motto, che deriva da un modo di dire in romagnolo: dàt d’atôrna!, cioè “datti d’attorno!”, che vuol dire “datti da fare”. È questo che dovremmo fare: la politica, ma soprattutto noi cittadini. Dovremmo ritornare a essere un po’ più come questa terra ci ha insegnato a essere. Un po’ più romagnoli».
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