Antonio Mazzeo: “Salviamo la scuola italiana, dove la violenza diventa un’abitudine”
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Insegnante, peace-researcher e giornalista impegnato nei temi della pace, della militarizzazione, dell’ambiente, dei diritti umani e della lotta alle criminalità mafiose. Con Antonio Mazzeo – insignito della Colomba d’Oro per la Pace “per aver interpretato per anni il giornalismo e la scrittura come una missione di difesa dei diritti umani e di denuncia delle ingiustizie” – siamo tornati sul tema della pericolosa diffusione della cultura bellica e militarista nelle scuole italiane.
Come abbiamo avuto modo di constatare soffermandoci sul preziosissimo lavoro svolto dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e università, i luoghi dell’apprendimento stanno diventando teatro della normalizzazione della guerra, del primato dell’individualismo, della violenza soprattutto, della competizione a oltranza e dell’annientamento dei più fragili del pianeta.
Antonio, qual è il rischio rappresentato da questi disvalori, dalla cultura guerresca e militarista e dai riferimenti al periodo fascista, durante il quale tali disvalori facevano largamente breccia nel mondo scolastico?
Fai bene a porre l’attenzione su uno degli aspetti più deleteri dell’odierno processo di militarizzazione delle scuole di ogni ordine e grado e del sistema educativo: il revisionismo storico e la riproposizione della narrazione e dei disvalori che hanno caratterizzato l’istruzione del ventennio fascista. Patria, nazione, identità e unità nazionale, sicurezza, rispetto della “legalità” e obbedienza sono tornate a essere le parole d’ordine delle innumerevoli iniziative “formative” che le forze armate propongono alle studentesse e agli studenti.
Si rispolverano presunti eroi di tutte le guerre, se ne esaltano le gesta di morte, si commemorano sanguinose battaglie coloniali e di contro si occultano i crimini commessi, le sanguinarie aggressioni contro le popolazioni, i bombardamenti con i gas sui villaggi in Africa, le inutili stragi di milioni di giovani mandati a fare da carne da macello per gli interessi del capitale e le follie dei dittatori. E intano la scuola italiana diventa sempre più autoritaria, classista e discriminante.
La violenza diventa abitudine. Gli attivisti continuano a resistere per opporsi alle guerre e alla catastrofe nucleare. Queste iniziative intraprese da singole persone amiche della nonviolenza costituiscono, tutte insieme, un modo per mettersi in gioco personalmente, per assumersi delle responsabilità e per indicare la strada concreta della pace, che richiede un processo lungo di preparazione e meditazione dei popoli che parte dell’educazione nei luoghi preposti alla formazione delle nuove generazioni.
Come puoi commentare queste riflessioni alla luce di ciò che avviene nelle scuole e nelle università, sempre più militarizzate e invase spesso dalla presenza delle forze armate?
Nelle nostre scuole è sempre più difficile proporre e sperimentare progetti di educazione alla pace e alla nonviolenza. Direi pure che è diventato quasi impossibile porre all’attenzione di dirigenti e colleghi la necessità di de-militarizzare i linguaggi e le attività curriculari. All’ultimo collegio dei docenti ho avuto l’ardire di chiedere di ridenominare un dipartimento incautamente chiamato “sicurezza e legalità”.
«Perché non pensiamo a un gruppo di lavoro sull’educazione nonviolenta?», ho proposto. «I ragazzi devono imparare a rispettare le leggi, l’autorità e le istituzioni che le difendono come le forze armate e di polizia», mi è stato risposto. E a maggioranza la richiesta è stata respinta. Questo è il clima che ormai si respira in buona parte degli istituti. Siamo del resto in guerra, una guerra globale e permanente. L’economia è di guerra e anche i media, le forze politiche, gli attori sociali hanno deciso di indossare l’elmetto. La scuola è da sempre lo specchio delle tensioni e delle contraddizioni della società. E dunque anche la scuola va alla guerra.
Come si manifesta questo processo di militarizzazione?
Purtroppo sono innumerevoli le forme che testimoniano il processo in atto: visite guidate degli studenti, fin dalla primaria, alle caserme e ai porti e aeroporti militari; lezioni dei militari su quasi tutti i temi e gli argomenti interdisciplinari – storia, costituzione, salute, sport, contrasto alla droga e ai comportamenti definiti devianti e altro ancora; stage e alternanza scuola-lavoro all’interno delle infrastrutture di morte, nei depositi di missili e munizioni, a bordo di caccia e carri armati, nei poligoni inquinanti, nelle industrie belliche.
Ci sono poi i tanti concorsi a premi promossi dal ministero della Difesa e dalle grandi holding delle armi e della cyber security – Leonardo, Fincantieri, Boeing –, i campi estivi con gli alpini e i reparti d’élite della Marina, le lezioni in lingua inglese con i Marines Usa che operano nelle installazioni che occupano i nostri territori. In tanti istituti si celebra l’inizio dell’anno scolastico con l’alzabandiera e il canto dell’Inno di Mameli, fianco a fianco con i militari e la mano al cuore.
La nonviolenza e il diritto al disarmo nucleare sono ancora valori proponibili nei contesti educativi?
Dicevo che è sempre più complicato proporre la pace, la nonviolenza e il disarmo e non rischiare l’isolamento o la commiserazione. Ma dobbiamo continuare a farlo perché è in gioco il futuro stesso di tutte e tutti noi. All’orizzonte si profilano le tetre nubi dell’olocausto nucleare e siamo chiamati al diritto-dovere alla resistenza per la sopravvivenza. Dobbiamo continuare a educare alla vita e per la vita, contro vento e maree, pur consapevoli delle nostre fragilità e del clima culturale di morte imperante.
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