La Luna e i Calanchi, festa della poesia o sagra della plastica?
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Matera, Basilicata - Anche quest’anno la mia estate è finita ad Aliano, il paese di “Cristo si è fermato a Eboli”. Stavolta, però, mi sono portato a casa una sensazione molto diversa dall’entusiasmo che raccontavo in questo articolo del 2018. Mi aspettavo di partecipare al consueto ritrovo di indigeni, artisti e pubblico uniti a decantare la lunare bellezza dei calanchi; di ammirare il remoto villaggio amato da Carlo Levi rinascere sotto forma di comunità provvisoria che anima stradine, scalinate e botteghe abbandonate trasformandole nelle sedi di artigiani, panettieri, osti, viaggiatori; di rivedere l’ideatore e direttore artistico del festival Franco Arminio, cantore della ruralità per eccellenza, parlare al pubblico con la stessa informale maestria che riserva agli ospiti.
E invece, nonostante questi elementi, la sensazione è quella di essere stato a una festa di quartiere in città, a una sagra di periferia (con tutto il rispetto per certe sagre di qualità). Intendiamoci. La Luna e i Calanchi resta uno dei festival più geniali e innovativi del panorama culturale italiano. Ma la sua potenza viene disastrosamente vanificata, a un occhio attento, dall’enorme ed evitabile impatto ambientale che porta con sé, aspetto che già avevo sottolineato in chiusura al mio articolo di cinque anni fa.
Dal primo all’ultimo giorno, infatti, anche quest’anno è stata una continua e forsennata distribuzione di bicchieri, bottiglie, piatti, posate, buste e vassoi in plastica monouso presso ogni angolo ristoro del paese; con l’unica eccezione di quello gestito dall’eroico Ivan Fantini. Mi domando, oggi come allora, se oltre al numero di partecipanti, non sia più significativo, per provare il successo dell’evento, pubblicare il dato relativo ai quintali di spazzatura prodotta.
Sono rientrato a casa doppiamente deluso. Non solo per quello che ho visto, ma anche perché cinque anni fa avevo accolto con fiducia i commenti sotto al mio articolo, che lo stesso Arminio condivise sul suo profilo Facebook. Commenti di partecipanti che, dopo aver riconosciuto come costruttiva la mia critica, lanciavano proposte per limitare i danni in futuro.
Inizialmente avevo deciso di non infierire, facendo prevalere la rassegnazione allo sdegno. “Addio, Aliano!”, ripetevo fra me sulla strada verso casa, ripromettendomi di non tornarci più. Venerdì 25 agosto, però, al 46esimo minuto del programma di Rai1 Camper, mi sono imbattuto nel clamoroso autogol di Franco Arminio che declamava il seguente verso: “Lasciate la via del turismo, prendete la via del sacro”. In quel momento lo sdegno ha gettato il cuore oltre l’ostacolo, superando la rassegnazione all’ultima curva.
E allora mi sono ricordato che questa è una festa che intende “coniugare arte e ambiente in un connubio non asservito alle logiche del puro consumo culturale”; è il palcoscenico sul quale Ulderico Pesce ha appassionato i presenti con “Petrolio”, il suo monologo sui disastri provocati dalle trivelle in Basilicata; è un luogo di impegno, nel quale artisti di diversi linguaggi ed estrazioni, Arminio incluso, si interrogano e si esprimono sulla terra, sulla libertà, sulla bellezza, sui diritti civili; è il festival del sacro, non del turismo balneare.
Questa profonda discrepanza fra intento e compimento mi ha ricordato una cornice senza quadro, una copertina senza libro, un sesso senza passione. Certo, sarei uno stupido se attribuissi tutta la responsabilità al direttore artistico. Dietro questo scellerato laissez-faire ci sono infatti diversi contributi. C’è l’ennesima amministrazione comunale che ignora non solo le buone pratiche sperimentate da altre piccole amministrazioni, ma forse anche il problema: più di 200 milioni di tonnellate di sola plastica monouso prodotta ogni anno nel mondo, di cui solo il 10% riciclato (per produrre altro monouso non più riciclabile), e tutto il resto bruciato nell’aria, seppellito nella terra, sommerso nei mari, pronto a entrare nella nostra catena alimentare.
Ci sono le leggi di questo paese, che a ogni edizione permettono alla Protezione Civile di scendere nel Parco dei Calanchi per distribuire acqua potabile non da una cisterna alla quale attingere con un contenitore personale, ma da un furgoncino stracarico di bottigliette in plastica, i cui vuoti non è raro che restino fra le dune. Ci sono i commercianti del posto, che ti considerano uno straccione se fai la spesa portandoti il tuo sacchetto o se chiedi una bevanda in vetro. “Cos’hai contro la plastica?”, mi sono sentito domandare dalla proprietaria del Brillo Parlante, il bar più frequentato di Aliano.
C’è la maggioranza del pubblico del festival che – come spesso accade – naviga a vista guidata dal faro della comodità e che evidentemente considera troppo faticoso, in un villaggio dove c’è una fontana d’acqua potabile ogni cento metri, attrezzarsi per riempire, lavare, riutilizzare, resistere al ricatto del consumo e dell’inquinamento a ogni passo, sorso, respiro.
Ma sarei altrettanto stupido se fingessi di non sapere che l’unica persona che può decidere di cambiare rotta è proprio il direttore artistico, al quale prendo l’impegno di regalare una borraccia con tracolla da portarsi l’anno prossimo nelle passeggiate ai calanchi al posto del suo consueto mezzo litro in polietilene tereftalato.
Si scherza, Franco. Conosco la tua ironia e il tuo amore per il dialogo, per questo mi permetto, ora, di rivolgermi direttamente a te, all’autore di Cedi la strada agli alberi, per farti un appello. Volta pagina! Attivati! Chiedi a chi di dovere di cambiare! No, non parlo del monouso compostabile prodotto da fabbriche a petrolio distanti migliaia di km e poi smaltito nell’indifferenziata per carenza di impianti di compostaggio. E non parlo nemmeno del falso rimedio della differenziata che, oltre a non incidere, deresponsabilizza le persone e non aumenta la loro soglia di attenzione. Parlo di qualcosa di più ambizioso. Parlo di cultura.
Qualche anno fa, nel cuore della notte inarrestabile di Piazzetta Panevino, leggesti una poesia. Meravigliosa. Era l’elenco della roba che trovasti nella stanza di tua nonna appena defunta. Decine e decine di oggetti apparentemente insignificanti – un nastrino, una vite spanata, un astuccio rotto, un centrino sdrucito, non ricordo quali fossero di preciso – conservati da decenni come cimeli sacri per rispetto al valore intrinseco della materia e per la possibilità che lei o qualche familiare un giorno potesse riusarli.
Ecco. Pensa a quanto può essere poetico il riuso, Franco. Ricorda gli applausi scroscianti di chi ascoltò quella poesia. Sono le stesse persone a cui potresti chiedere sui social se parteciperebbero, già dalla prossima edizione, a un progetto pilota di “Cultura a rifiuti zero” che parta dal Sud e si estenda poi altrove. Un progetto per chi vuole davvero che la cultura smetta di essere “asservita alle logiche del puro consumo”.
So che non è il tuo mestiere. Ma puoi chiedere aiuto a chi ti sta intorno, a chi ti vuole bene, a chi ha ha già dimostrato che si può fare. A Ivan Fantini, per esempio. O anche, se ti va, a questo giornale, che da 11 anni racconta di imprese, associazioni, individui che a un certo punto hanno deciso di rimboccarsi le maniche inventando qualcosa che prima non c’era o portando nella propria terra progetti che avevano visto altrove.
Sei uno dei volti più celebri di questa Italia che cambia e che va controcorrente. E allora provaci. Mostraci la tua disponibilità a voltare pagina e a regalare alla comunità temporanea che abita le estati dei calanchi la poesia di un festival più coerente con sé stesso. Pensaci. Aliano è lo scenario perfetto per un progetto pilota sul quale far convergere organizzatori, artisti, amministrazione ed esercenti. Dopo la coscienza di classe, dopo la coscienza dei luoghi, celebriamo, con fierezza e con tutte le difficoltà di un mondo che va in malora, la coscienza delle azioni. Coraggio, Franco. Noi ci siamo, se vuoi.
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