Ecuador: tra trivelle e biodiversità, il popolo ha scelto l’ambiente
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Ai cittadini non interessa l’ambiente, ma solo l’economia, la sicurezza e la salute. Quante volte sentiamo affermare questi concetti quando ci interroghiamo su come mai in epoca di crisi climatica, microplastiche invasive, siccità e incendi le campagne elettorali sembrino completamente ignorare queste tematiche.
Eppure, in molte parti del mondo, ogni volta che i cittadini e le cittadine sono chiamati a votare su queste tematiche la maggioranza dei votanti sembra avere le idee chiare. L’ambiente interessa eccome, anche a discapito di economia e “sviluppo”. Così è stato con i referendum italiani su acqua pubblica e nucleare, così è stato per tante altre scelte europee e così è stato in un paese cosiddetto “povero” come l’Ecuador che due giorni fa ha deciso di dire no alle trivelle in Amazzonia.
Lo sfruttamento petrolifero nello Yasuni era stato avviato nel 2016 dall’allora presidente Rafael Correa, dopo aver visto fallire la sua innovativa proposta ai Paesi più ricchi di condividere i costi della salvaguardia ambientale, col pagamento all’Ecuador di 3,6 miliardi di dollari (la metà di quanto si stimava avrebbe fruttato il petrolio) per evitare l’avvio dei pozzi del Blocco 43.
Se da un lato è sconcertante anche solo che si ipotizzi di devastare ulteriormente l’Amazzonia per cercare petrolio, dall’altro è esaltante scoprire che le persone – messe di fronte a scelte cruciali e nonostante i media di tutto il mondo siano guidati da logiche consumistiche spietate – sappiano ancora fare la “scelta giusta”.
La statale Petroecuador ha annunciato che darà immediatamente il via al piano di smantellamento dei pozzi del Blocco 43, pur sottolineando che l’operazione costerà all’economia nazionale 16,4 miliardi di dollari. Quindi una chiara scelta: prima l’ambiente e le popolazioni native, poi l’economia e lo “sviluppo”.
ECUADOR: UN PRECEDENTE MONDIALE
I giornali italiani – e molti giornali occidentali – hanno accolto la notizia con entusiasmo (ma con scarsissimo peso, essendo uscita con scarsa rilevanza sulle principali testate). Si parla da più parti di un fondamentale “precedente mondiale”.
L’Ecuador – riportano vari media – ha deciso con un referendum di fermare lo sfruttamento del petrolio da uno dei suoi più grandi giacimenti. Con quasi il 58% dei voti scrutinati, il 59,14% degli ecuadoriani (con un’affluenza molto alta, che ha superato l’80%) si è espresso infatti contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi all’interno del Parco Nazionale Yasuni, nell’Amazzonia ecuadoriana. Il 40,86% ha invece votato per la continuazione delle trivellazioni nelle aree di Ishpingo, Tambococha e Tiputini (Itt), noto anche come Blocco 43. Il risultato del referendum – che si è svolto parallelamente alle elezioni presidenziali – costituisce un clamoroso trionfo per Yasunidos, il gruppo ambientalista che ha promosso la consultazione per proteggere Yasuni, dichiarato riserva della biosfera dall’Unesco nel 1989.
Il referendum era stato convocato per chiedere ai 13,45 milioni di elettori ecuadoriani se volessero che lo sfruttamento del petrolio nello Yasuní, in atto da alcuni anni, proseguisse o meno. Il quesito recitava: “Sei d’accordo che il governo ecuadoriano mantenga il greggio dell’ITT, noto come blocco 43, nel sottosuolo a tempo indeterminato?”. Una questione che ha spaccato la politica e la stessa sinistra ecuadoriana, divisa tra la fazione “indigenista”, favorevole allo stop, e quella “urbana”, che auspicava invece che lo Stato continuasse a incamerare le royalities derivanti dallo sfruttamento petrolifero dell’area. Il risultato finale è stato netto.
«Ha vinto la vita. Hanno vinto la speranza, i popoli isolati, il futuro della specie e il polmone del mondo», ha esclamato Sofia Torres, una delle portavoce di Yasunidos, il gruppo ambientalista che ha promosso la consultazione e che ha dovuto aspettare dieci anni per poter finalmente festeggiare: fu nel 2013, infatti, che l’allora presidente Raffael Correa annunciò l’avvio delle perforazioni.
E ancora: «Questo referendum è, a livello mondiale, la prima consultazione nazionale vincolante partita da un’iniziativa popolare sul tema del petrolio – commenta Alejandra Santillana di Yasunidos -. È un traguardo che un piccolo Paese del Sud Globale come l’Ecuador apra la strada per il contrasto al cambiamento climatico».
In molti fanno notare che questo risultato non potrà non mettere pressione al presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva. Il Brasile, infatti, “ospita” il 60% dell’Amazzonia. Il leader brasiliano, pur promuovendo la “deforestazione zero”, non è contrario all’esplorazione nella foce del Rio delle Amazzoni da parte della statale Petrobras.
LE POPOLAZIONI INDIGENE E LA BIODIVERSITÀ
Lo stop all’esplorazione petrolifera avvantaggia anche le popolazioni indigene in isolamento volontario che vivono nel Parco. La più grande area protetta dell’Ecuador, infatti, ospita il popolo Waorani e le ultime comunità indigene del paese in isolamento volontario, i Tagaeri e i Taromenani.
Non solo. La zona in questione è anche ricca di straordinaria biodiversità Il Parque Nacional Yasuní è stato istituito nel 1979 su una superficie di 1.022.736 ettari. Nel 1989 l’Unesco lo ha dichiarato Riserva della Biosfera e nel 1999 è stata creata la riserva integrale Zona Intangible Tagaeri-Taromenane (ZITT). Nonostante a Yasuní siano stati segnalati dati sorprendenti sulla biodiversità per diversi gruppi di flora e fauna – qui sono state trovate più di 2mila specie di alberi e arbusti, 204 mammiferi, 610 uccelli, 121 rettili, 150 anfibi e più di 250 pesci – nell’ottobre 2013 l’Asamblea Nacional dell’Ecuador ha approvato l’estrazione di petrolio in un’area di 1.030 ettari nel cosiddetto eje ITT. Tre anni dopo è iniziata l’estrazione di greggio, che secondo la compagnia petrolifera statale Petroecuador ha fruttato allo Stato più di 4.500 milioni di dollari di entrate.
BOCCIATE ANCHE LE MINIERE DEL CHOCÒ ANDINO
Un altro referendum ha visto la vittoria di un’altra grande “battaglia”: il 68% degli elettori, infatti, ha votato per vietare l’estrazione mineraria da una foresta nei pressi della capitale Quito. Alla decisione sul Chocó Andino, dichiarata dall’Unesco riserva della biosfera che ogni anno assorbe 390mila tonnellate di carbonio, hanno partecipato solo i cittadini della regione metropolitana della capitale.
I PROSSIMI PASSI
Come indicato da una sentenza della Corte Costituzionale, lo Stato avrà ora un anno di tempo per smantellare le strutture, per un costo di circa 500 milioni di dollari. Petroecuador afferma che, a causa dei protocolli che a tal fine devono essere applicati, rispettare la dead line sarà materialmente impossibile. Il governo stima che il danno ammonterà a 1.200 milioni di dollari l’anno di mancati profitti, mentre i movimenti ambientalisti minimizzano le conseguenze economiche della chiusura, affermando al contrario che la gestione di greggi pesanti come quello di Yasuní potrebbe finire di essere redditizia nell’arco di pochi anni per la caduta del prezzo del petrolio.
Ad ogni modo, affinché lo Stato sia in grado di recuperare le entrate petrolifere che andrà a perdere con il blocco delle estrazioni, Yasunidos ha proposto la riduzione delle esenzioni fiscali, la rinegoziazione delle tariffe per le grandi compagnie telefoniche, la riscossione di debiti milionari dai primi 500 debitori del Servicio de Rentas Internas (SRI) e la promozione e l’aumento del turismo.
Per approfondire leggi La storica vittoria in Ecuador del referendum contro le trivellazioni petrolifere e Alle elezioni in Ecuador si andrà al ballottaggio
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