La tanatologa Daniela Muggia: “Per vivere bisogna imparare a morire” – Meme! #45
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Torino - «Non riesco a capacitarmi, anche da un punto di vista logico, di come noi occidentali scappiamo dalla morte, considerandola un vero e proprio tabù. Siamo così rigorosamente scientifici da non riuscire ad accettare l’unica previsione futura certa della nostra vita». Sono parole di Daniela Muggia, tanatologa e ideatrice del metodo ECEL per l’accompagnamento empatico della fine della vita.
Daniela ha dedicato una vita allo studio della morte, creando un vero e proprio ponte tra cultura occidentale e cultura orientale e ribaltando l’immaginario sul tema. «È giunto il tempo di entrare nell’ottica di togliere questo distinguo tra vita e morte – sostiene – perché è grazie al fatto che moriamo istante per istante che siamo vivi». Approfondiamo insieme a lei la morte e proviamo a superare lo sguardo dualistico che la contrappone alla vita.
CARLOS CASTANEDA E LA MORTE
Anni fa, poco più che ventenne, mi sono affacciato alla lettura di molti volumi di Carlos Castaneda. Per chi non lo conosce – semplificando –, è di uno scrittore peruviano naturalizzato statunitense che ha dedicato gran parte della sua vita allo studio della cultura tolteca. Circondato da un’aura piuttosto misteriosa, nel suo lavoro di esplorazione di una cultura completamente diversa rispetto a quella occidentale, Castaneda è accompagnato da un messicano di etnia Yaqui, rivelatosi poi uno sciamano discendente da una stirpe le cui origini risalgono sino ai suoi predecessori nel Messico antico, di nome Don Juan Matus.
Durante i primi incontri, Don Juan “illude” Castaneda: per scardinare le sue convinzioni rispetto al mondo tolteco, lo convince a utilizzare delle sostanze psicotrope, una delle quali è il peyote. Avete mai sentito parlare del rito legato a questa pianta? Senza volerlo sminuire, ho conosciuto tante persone che, ammaliate da questa parte di racconto castanediana (un’illusione), hanno speso una buona parte di risparmi per partecipare a questi rituali, in ogni parte del mondo. Da queste persone nessun cenno su uno dei grandi temi della seconda parte dell’apprendistato castanediano: la morte.
Castaneda scrive: “La morte è ovunque. Può essere come i fari di un’auto che appaiono su un’altura distante, che restano visibili per qualche tempo e quindi scompaiono nell’oscurità, ma solo per ricomparire su un’altura diversa e poi sparire di nuovo. Quei fari sono le luci sulla testa della morte. La morte li indossa come fossero un cappello e poi parte al galoppo, guadagnando terreno su di noi, facendosi sempre più vicina. A volte spegne le luci, ma non si ferma mai”. La morte e un diverso sguardo su di essa per vivere davvero la vita che abbiamo in dono sono elementi centrali della visione di Castaneda e anche i meno raccontati.
Lo ammetto, non è facile parlarvi da profano dell’unica cosa sicura della nostra vita, dalla quale per una serie infinita di ragioni – comprensibili o meno – l’essere umano tendenzialmente scappa a gambe levate. Pensate agli stessi annunci mortuari: di fatto non muore mai nessuno! “È venuto a mancare all’affetto dei suoi cari” “è volato in cielo” o “non è tra noi” sono solo alcuni dei sinonimi per non citarla, la parola “morte”.
IL METODO ECEL
Per cercare di darvi delle chiavi di lettura diverse sul tema, abbiamo incontrato a Coazze, in provincia di Torino, una nostra cara conoscenza, Daniela Muggia, scrittrice, tanatologa e ideatrice di un metodo chiamato ECEL, Empathic Care of the End of Life, un metodo di accompagnamento empatico della fine della vita. Il metodo si fonda su quelle che Daniela definisce “tre radici dell’albero”: la tanatologia tibetana (la matrice orientale), le neuroscienze (e le recenti scoperte di matrice occidentale sulla fisica quantistica) e la condivisione dell’esperienza degli accompagnatori formati dall’Associazione Tonglen ODV di Torino, di cui è tra le fondatrici.
Fonti di ispirazione fondamentale per il percorso della Muggia sono stati il lavoro di Sogyal Rinpoche – in particolare Il libro Tibetano del Vivere e del Morire – e l’esperienza come tanatologo di Cesare Boni, con cui Daniela Muggia si è perfezionata presso l’Università Federico II di Napoli, a seguito di una lunga esperienza maturata sul campo. Vi starete chiedendo: ma cosa intendi per tanatologa? «Il termine viene dal greco θάνατος – morte –, quindi un tanatologo è una persona che ha dedicato i suoi studi alla morte, al morire e al lutto».
Oggi il Metodo ECEL, frutto di trent’anni di studi e di venticinque anni di esperienza, è insegnato solo nell’Università popolare In Cordescentia. Gli accompagnatori formati possono testare sul campo le proprie abilità grazie a “Sos per chi resta”, iniziativa gratuita sviluppata da Focus 3.0, Associazione Tonglen e dall’Università Popolare In Cordescentia. Si tratta di un gruppo WhatsApp dedicato a tutte le persone che hanno bisogno di aiuto perché un loro affetto è morto oppure perchè essi stessi si trovano alla fine della loro vita: chi vuole può essere seguito da una o più persone formate con il metodo ECEL.
Il metodo, prima solamente insegnato in presenza, ha registrato un deciso aumento di notorietà con l’arrivo della pandemia e lo sviluppo degli incontri da remoto: «Il corso degli eventi e l’impossibilità di vedersi di persona ci hanno in parte costretto a utilizzare strumenti come le chat WhatsApp o Zoom – racconta Daniela – dandoci la preziosa possibilità di arrivare a un numero di persone incomparabile con il passato, formando sempre più accompagnatori dedicati. Il digitale non ha inficiato la qualità della nostra proposta e, cosa ancora più importante, ha permesso a molte persone di non morire sole e ai loro affetti di essere seguiti e accompagnati nelle diverse fasi del lutto».
ACCOMPAGNAMENTO ED EMPATIA
L’intento del corso e dell’attività tanatologica di Daniela Muggia è quello di aggiungere un’altra figura rispetto a quelle che sono già all’interno degli ospedali e nell’ambito della cura e del prendersi cura: quella appunto dell’accompagnatore empatico. In questo caso, il termine empatico sta a significare che «in questo tipo di accompagnamento si sviluppa nell’accompagnatore, con l’aiuto delle metodologie contemplative tibetane, uno stato di grande empatia eticamente orientata», ispirata da studi molto recenti di Tania Singer e presentati nel secondo video di approfondimento che vi proponiamo.
Il lavoro di ricerca e studio sull’accompagnamento empatico svolto dall’Associazione Tonglen è valso, nel 2008, il Premio Nazionale per l’Umanizzazione della Medicina intitolato a Tiziano Terzani. Daniela Muggia inoltre proviene dal mondo della comunicazione, perché – mi spiega – «essendo la tanatologia una formazione specifica spesso legata al post-laurea, sono diverse le declinazioni da cui si può affrontarla e svilupparla».
Queste sue origini l’hanno spinta, nel corso degli anni, ad approfondire il desiderio di divulgare a quante più persone possibili le sue conoscenze sul tema della morte e sull’accompagnamento empatico della fine della vita, sviluppando anche una carriera di autrice di libri sul tema. L’ultimo arrivato, Di morte non si muore, pubblicato da Amrita Edizioni, è stato oggetto di un bellissimo dibattito con i nostri Daniel Tarozzi e Daniela Bartolini.
Devo ammettere, come Daniela stessa mi ha detto più volte durante l’intervista, che non è affatto facile sintetizzare degli argomenti – specialmente quelli legati alla tanatologia tibetana, che è immensa – così complessi. Per questa ragione vi rimandiamo direttamente alle parole e alle spiegazioni di Daniela Muggia contenuti nei due video che trovate in questa pagina. Per questo tipo di articolo, come avrete capito leggendo l’introduzione, mi piaceva l’idea di darvi degli spunti di riflessione personale e ve ne lascio uno per chiudere questo pezzo.
PARLIAMO DI MORTE
Nella mia attività di giornalista e di autore di centinaia di video che escono su Italia che Cambia ho incontrato la morte in maniera diretta solamente in un’unica storia: quella di Boschi Vivi e dei loro cimiteri naturali per la salvaguardia del paesaggio. Anche qui uno sguardo diverso sulla morte e un’opportunità, per dirla con le parole di Daniela Muggia, «di considerare la morte come una parte attiva delle nostre vite, non come un’entità separata da cui scappare, perché questo diniego causa solo sofferenza: sia perché non ci fa arrivare pronti all’unica cosa certa della nostra esistenza ma soprattutto perché non ci libera dal concetto di eternità che spesso ci allontana dal significato più profondo delle nostre vite».
Fa riflettere il fatto che anche il mio pezzo su Boschi Vivi inizia con una frase che recita: “Non vorremmo mai parlarne. Anzi, non ci pensiamo e se lo facciamo dobbiamo spesso superare una sensazione di vuoto e di disagio abbastanza spiccato”. Umanissimo e comprensibilissimo dolore a parte, non è forse giunto il momento per la nostra specie umana di iniziare almeno a chiamare la morte con il suo nome?
Piuttosto che investire in tecnologie sempre più avanzate allo scopo di aumentare l’età media delle nostre vite, tanto da spingerci verso una presunta immortalità e da considerare la morte solo un “problema tecnico da risolvere”, non avrebbe senso provare a formarci sul tema e a riflettere sul perché di questo tabù esistenziale millenario chiamato morte? Ovvio che studiare le diverse possibilità per favorire l’aumento dell’età media sia una prospettiva che ci vede tendenzialmente favorevoli, per una serie infinita di ragioni anche plausibili. Però perché non ci chiediamo se ha davvero valore solo la quantità di vita piuttosto che la sua qualità?
Non è forse giunto il momento di ricordarci ogni giorno le parole di Elisabeth Kübler Ross, una delle “madri” della tanatologia moderna che sostiene che «i morenti sono da sempre maestri di grandi insegnamenti, perché è quando ci si avvicina alla morte che la si vede più chiaramente. Nel condividere con noi queste lezioni, ci insegnano l’immenso valore della vita stessa». Quante domande per l’unica certezza che abbiamo sul nostro futuro… Cambiare il nostro immaginario, d’altronde, comporta lavorare sui nostri paradossi.
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