In viaggio tra Potsdam e Berlino alla scoperta di co-housing e progetti di rigenerazione
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Berlino, aeroporto di Brandeburgo. La luce lattiginosa che proviene dalle vetrate sembra ovattare i suoni, le risate, i pensieri. Ho sempre creduto che gli aeroporti siano luoghi di sospensione per pensare, abbandonarsi ai ricordi e annotarne di nuovi, come il racconto di un viaggio. Tra i miei compagni di avventura, un libro di Le Breton sul viaggiare a piedi, gustato in dei rari sprazzi di solitudine o prima di dormire.
Mentre aspetto, accecata dalla luce che dalla pista invade l’interno, mi risuonano alcune parole, lette la sera prima. In un passaggio a proposito della coscienza dei luoghi e del viaggio come ricerca di un posto in cui esistere in totale naturalezza, Le Breton scrive che tutti, in un modo o nell’altro, cercano “il luogo della propria nuova messa al mondo”. A volte credo che Berlino sia proprio uno di questi. Con la sua bellezza ferita e anticonformista, ha ancora addosso il fascino intatto di un luogo in cui rinascere, ritrovarsi e tornare a sentirsi parte di un universo frammentato e vario in cui c’è spazio per tutti, senza distinzioni.
Qualche giorno fa, grazie al finanziamento del programma Erasmus+ e all’ospitalità di Projekthaus e dell’associazione tedesca Inwole, insieme a un gruppo di membri della community di Italia che cambia giunti da diverse regioni italiane, siamo partiti alla volta di Potsdam e Berlino, per una settimana alla scoperta di vuoti urbani, spazi rigenerati e modelli di co-housing e vivere sostenibile. L’aeroporto di Brandeburgo è dove per molti di noi è cominciata e finita questa avventura. Ma ora, ripartiamo insieme.
A SPASSO PER POTSDAM
Un racconto di viaggio può iniziare da tanti punti diversi. Momenti di condivisione, risate, cene o anche imprevisti, cambi di programma, voli cancellati, ore di pullman per raggiungere la propria destinazione. Nulla di tutto questo è mancato al nostro viaggio, che aveva un’unica importante certezza: l’ospitalità dell’associazione Inwole e il loro Projekthaus, un co-housing alle porte di Berlino, di cui via avevamo già parlato.
Il nostro racconto parte da Babelsberg, il più grande distretto della città di Potsdam, direttamente collegata dalla S-Bahn all’iconica Alexanderplatz. Con i suoi viali alberati, le ville gigantesche e il suo centro ricostruito dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale e oggi patrimonio UNESCO, Potsdam è tra le altre cose lo storico epicentro dell’industria cinematografica tedesca. Da sempre abitata dall’élite, prima ebraica, poi nazista, con le sue case sfarzose che ricordano quelle hollywoodiane in salsa germanica, Potsdam è un polmone verde con un intricato sistema di laghi e canali collegati alla Sprea, il fiume che attraversa Berlino.
Non distante da Projekthaus, lungo la Karl-Marx-Straße, ci sono ancora le ville che ospitarono il presidente americano Harry S. Truman, il primo ministro britannico Winston Churchill e l’ex capo dell’Unione Sovietica Stalin durante la conferenza di Potsdam del 1945. Proprio davanti alla “Little White House” di Babelsburg, [la casa dove visse il presidente statunitense, ndr], un memoriale ricorda la strage di Hiroshima e Nagasaki. Fu infatti lì che Truman decise di sganciare l’arma atomica e due enormi massi decontaminati ancora oggi ne ricordano le vittime.
ABITARE IN UN CO-HOUSING: PROJEKTHAUS
Nato nel 2005 per costruire un modello di proprietà comune permanete, che renda “vivibili” anche i quartieri assediati dalla gentrificazione, Projekthaus si estende su circa 7100 m², comprendendo tre edifici, con abitazioni, uffici, una stazione di cargo bike, un forno comune e numerosi spazi aperti al quartiere dove si tengono laboratori di cucito, falegnameria, ceramica, la ciclofficina e un ampio giardino.
L’edificio più antico, costruito alla fine dell’Ottocento, è la casa dove un tempo abitava la famiglia del proprietario della vecchia fabbrica di reti da pesca, oggi convertita in negozi e centro yoga, la cui ciminiera spenta svetta ancora al di là del giardino. Prima di diventare un co-housing, questo spazio è stato destinato agli usi più diversi e curiosi: da scuola ad albergo per soli uomini. A condurci in questo affascinante viaggio nel tempo, ci sono Petar Atanackovic e Natalia Roman, inquilini di Projekthaus e nostre guide di eccezione.
Nel 2014 Projekthaus si è ampliato grazie alla costruzione di una casa passiva nell’area del giardino antistante il nucleo abitativo originario. Si tratta di un’abitazione priva di un sistema di riscaldamento, ma in grado di immagazzinare, attraverso i pannelli solari sul tetto e le ampie vetrate, l’energia solare. Attraverso un complesso sistema di ventilazione inoltre, il calore viene convogliato nei diversi appartamenti, sfruttando persino quello generato mentre si cucina.
Oggi sono circa trentasette gli abitanti di Projekthaus, tra adulti, bambini e adolescenti, più tre cani e un gatto. Abitarne gli spazi e ascoltare la testimonianza di Natalia e Peter, ci ha permesso di capire più dall’interno come funzioni la vita di un co-housing. Ci sono idee molto fantasiose a riguardo: c’è chi pensa siano degli studentati, delle residenze artistiche o delle comuni hippie. «Mi dispiace deludervi, ma qui non trascorriamo le nostre giornate nudi ad abbracciare gli alberi», scherza Peter.
Il funzionamento di un co-housing è un sistema complesso. A grandi linee, gli abitanti di Projekthaus sono divisi in gruppi di lavoro, che vanno dalla contabilità alla gestione del giardino. Ci sono riunioni periodiche e sedute plenarie in cui prendere le decisioni più importanti per tutto il gruppo. «Questo posto è cambiato nel corso del tempo – aggiunge Natalia – ma quello che conta è che noi siamo qui per restarvi. Tutto ciò che facciamo a Projekthaus è in prospettiva un lascito per le future generazioni». Un luogo che in quanto condiviso diventa di tutti, chiamando ciascuno a mettersi in gioco: nelle scelte, nelle decisioni, nella divisione dei compiti e nell’immaginare e riprogettare lo spazio abitato.
RECYLCING, UPCYCLING E SPAZI “GALLEGGIANTI”
Il nostro viaggio, guidati da Peter e Natalia, ci ha condotto soprattutto alla scoperta di Berlino e dei suoi volti mutevoli. Città vitale e tra le più innovative di tutta Europa, Berlino è sempre inaspettata, sfuggente persino nei suoi angoli più famosi. Come ad esempio il centro culturale a pochi passi dalla centrale Alexanderplatz, ospitato all’interno l’imponente Haus der Statistiks, costruita nel 1970 dalle autorità governative della Germania dell’Est. Nei suoi 65 mila metri quadri, la ex Haus der Statistiks oggi accoglie ben cinquanta organizzazioni, che insieme costituiscono un dinamico centro culturale con vari laboratori, dal cucito alla falegnameria, spazi espositivi e numerosi progetti di recycling e upcycling.
E dagli esperimenti su materiali innovativi prodotti da funghi e materia organica ospitati alla Haus de Statistiks, ci siamo diretti verso la Floating University, uno spazio costruito e gestito da un collettivo nel bacino di raccolta dell’acqua piovana adiacente l’ex aeroporto di Tempelhof. Ben inteso, non si tratta né di un’università, né di edifici realmente galleggianti, ma di una sorta di palafitte che quando sale il livello dell’acqua piovana, sembrano appunto galleggiare, circondate da un paesaggio paludoso e suggestivo dove una vasta gamma di animali, piante e alghe ha messo radici. Uno spazio costruito dall’uomo e reclamato in qualche modo dalla natura, lo definisce il collettivo stesso.
HOLZMARKT: DA VUOTO URBANO A NUOVO VILLAGGIO SULLA SPREA
Ma la Floating University non è il solo esempio di trasformazione di un vuoto urbano. Berlino ne conta moltissimi, nati soprattutto lungo quella cicatrice ancora a tratti visibile, lì dove sorgeva il muro. Holzmarkt è uno di questi. Definito come una sorta di villaggio urbano, oggi sorge sulle sponde della Sprea lì dove un tempo c’era una terra desolata. Gestito dalla cooperativa Holzmarkt25, dal 2012 è diventato un colorato luogo di svago, lavoro, tempo libero, dove mangiare un boccone, fare qualche acquisto e rilassarsi in riva al fiume. Ma soprattutto Holzmarkt rappresenta un atto di resistenza ai famelici interessi del mercato immobiliare e dei grandi investitori, restando così uno spazio aperto alla comunità.
Esattamente sulla sponda opposta della Sprea sorge Spreefeld, un longevo progetto di vivere cooperativo e collaborativo in cui oggi abitano circa centoquaranta persone. Una “urban patchwork family”, la definisce il suo ideatore Michael Lafond, originario di Seattle ma ormai berlinese d’adozione. Spreefeld, ci spiega Lafond, nasce come risosta alla crisi abitativa e ambientale degli ultimi anni, creando una commistione tra spazi di vita e di lavoro, aperti al vicinato. Alla base del progetto, l’idea che la casa non sia più un oggetto alla stregua degli altri, ma un bene alla portata di tutti.
SPAZI VUOTI: IMMAGINARE DI VOLARE A TEMPELHOF
Quasi alla fine del nostro viaggio, abbiamo trascorso qualche ora sulla pista di decollo e atterraggio dell’ex aeroporto di Tempelhof, oggi trasformato in un vasto parco urbano. Inaugurato nel 1923 e poi ampliato in epoca nazista, Tempelhof fu l’unico ponte con l’occidente che consentì agli abitanti dell’Ovest di ricevere gli approvvigionamenti durante il blocco sovietico. Dal 2008 ha smesso di funzionare come aeroporto e con un referendum la città di Berlino ha scelto che diventasse un parco cittadino.
Oggi Tempelhof è uno spazio aperto, grande a perdita d’occhio, quanto ben cinquecento campi da calcio. Svariati i tentativi di costruirci qualcosa: per ora resta un vuoto urbano in cui lasciar spaziare lo sguardo fino alla linea dell’orizzonte come quasi mai potrebbe accadere in nessun centro urbano. Per molti abitanti di Berlino è un posto in cui rifugiarsi, piangere, correre o andare in bicicletta ad occhi chiusi.
There is a wall
That runs right through me
Just like the city
I will never be joined
Berlino, aeroporto di Brandeburgo. “C’è un muro/che mi corre dentro/ E come questa città/ sarò sempre divisa”, cantano i Bloc Party nelle cuffiette. Mentre scrivo, con il computer in bilico sulle ginocchia, stretta su una fila di poltroncine, tra viaggiatori in attesa di partire, ingoio quel boccone misto di malinconia e stanchezza che mi porto dietro da ogni viaggio.
Ascolto distrattamente stralci di conversazione, qualcuno di noi è preso da una telefonata, altri si ripromettono di rivedersi in un modo o nell’altro e c’è chi non ama gli addii e neppure gli arrivederci. Sorrido dell’espressione assonnata di molti di noi. L’ultima sera, qualcuno è rimasto in piedi fino a tardi a cantare, parlare di viaggi, cammini e degli spaventi presi lungo la strada. L’avventura tra Potsdam e Berlino si è appena conclusa, ma come ogni fine è sempre l’inizio di qualcosa di nuovo.
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