N. aspetta un bambino: storia di una piccola sposa e mamma in Afghanistan
Seguici su:
I drappi lunghi del burqa color notte coprono ogni fazzoletto del busto ossuto, formando un chiaroscuro fugace tra le onde di tessuto lunghe fino alle caviglie. Il silenzio ostinato sembra essere una emanazione della grata di telo disegnata sul volto, come se le parole vi rimessero impigliate e non riuscissero a venir fuori. Il capo immobile si concede brevi cenni solo per dirigere le pupille verso l’ingresso della sala delle visite. È difficile dire l’età esatta. Le mani scoperte colorate del rosso ocra dell’henné tradizionale sono avvolte in una pelle molle e delicata. Le dita lucide e infantili suggeriscono non più di quindici anni.
Quando si alza dalla seggiola in legno della sala di attesa per il suo turno di consultazione, la curvatura del ventre appare evidente nonostante le forme larghe dell’abito. Deve essere alle ultime settimane della gravidanza. La camminata lenta e cadenzata verso l’ambulatorio lascia intuire una fatica muta, navigata, che male si addice alle palme molli da bambina. Al suo fianco, un burqa grigio scuro piantato su spalla larghe e basse ondeggia accompagnandola alla porta. Entrano insieme e scompaiono per la visita con l’ostetrica dell’ospedale provinciale.
N. viene da un villaggio di fango secco e paglia a pochi chilometri da Qalat, nella provincia di Zabul, un nugolo di stradine polverose nel cuore del deserto afgano al confine col Pakistan dove la vita è scandita dai ritmi ciclici della pastorizia e della malnutrizione. In questa terra la cultura pashto incontra l’esigenza ancestrale di sopravvivere alla mestizia della siccità, da questo connubio fatale nasce la scelta per molte famiglie di contadini e pastori di offrire le proprie figlie in sposa ai primi vagiti dell’adolescenza.
«I matrimoni precoci sono una costante in questa zona», racconta Najeeba, ostetrica d’INTERSOS nell’ospedale di Qalat. «Già a dodici o tredici anni i genitori combinano i matrimoni con promessi sposi di dieci o venti anni più grandi. È l’unico modo che hanno per guadagnare qualche spiccio attraverso la dote e sfamare gli altri figli. N. ad esempio si è sposata l’anno scorso a quattordici anni appena compiuti e ora è alle ultime settimane di gravidanza. È malnutrita e rischia di non riuscire ad allattare».
Alla triste consuetudine dei matrimoni in età precoce si aggiunge la scarsa consapevolezza sull’importanza di una corretta consultazione prenatale. La recente legislazione del governo talebano che vieta alle donne di lavorare ha ulteriormente rafforzato il loro allontanamento dalla vita pubblica e la recrudescenza di pericolose pratiche di parto domestico, soprattutto nelle aree desertiche del sud.
La difficoltà a raggiungere le strutture mediche, rare nelle zone rurali, contribuisce a minacciare la partecipazione a percorsi sanitari di accompagnamento alla nascita, fondamentali per garantire le condizioni igienico-sanitarie minime per una nascita in sicurezza. Le matrone dei villaggi rappresentano spesso l’unico sostegno alla maternità e le conseguenze sono tragiche.
Le Nazioni Unite stimano che il tasso di mortalità alla nascita in Afghanistan sia pari a 638 neonati ogni 100.000 nascite, il più alto in tutta la zona mediorientale. Alla fragilità del sistema sanitario nell’area sud del paese si sovrappone una condizione endemica di malnutrizione che colpisce in maniera più profonda le donne in gravidanza e allattanti.
La siccità che nel 2023 ha raggiunto il suo terzo anno sta provocando una impennata violenta dei livelli d’insicurezza alimentare e secondo il World Food Program nove milioni di persone al momento rischiano di cadere in uno stato di malnutrizione acuta o severa. La condizione di subordinazione sociale in cui è relegata la donna in molte aree del paese costituisce un ulteriore fattore di rischio nell’accesso a una alimentazione corretta e sufficiente.
«Siamo in una condizione di emergenza totale, la guerra non c’è più ma molti degli effetti continuano ad avvertirsi con una chiarezza preoccupante. Donne e bambini sotto i cinque anni sono le persone più colpite», ammette ancora Najeeba mentre si sfila con fare stanco i guanti umidi in lattice appena utilizzati e li lascia cadere nel cestino a fianco alla scrivania di legno.
N. esce dalla stanza appena dietro al burqa beige della suocera accompagnatrice e si dirige verso l’uscita. Il passo stanco sembra farsi più leggero, l’ostetrica deve averla rincuorata sullo stato del bambino. Arrivata all’uscita si gira e lascia cadere un ultimo sguardo invisibile sul corridoio dell’ospedale, dritto fino alla porta verde acqua della sala parto, come a volerle dare un saluto di arrivederci. Scuote leggermente la testa in un commiato impercettibile, prima di voltarsi di scatto con un’onda ampia di tessuto che lascia intravedere le caviglie sottili da adolescente.
La suocera mantiene la porta spalancata, con un passo spedito N. esce fuori e si incammina nel terriccio secco della stradina provinciale che porta al villaggio. La aspettano un’ora e mezza di cammino sotto il sole, nel silenzio di una terra che sembra aver mangiato le parole per raccontarla.
Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento