27 Lug 2023

Peppe Voltarelli: dalla Calabria a New York, per una musica etica e poetica

Scritto da: Tiziana Barillà

Il percorso di vita e artistico di Peppe Voltarelli è un sinuoso cammino che tocca molti luoghi, fisici e metaforici. Dalla Calabria a New York, dalla tradizione musicale meridionale alle contaminazioni della world music. Il tutto all'incessante ricerca di una produzione artistica di qualità finalizzata a portare bellezza nel mondo e risvegliare le coscienze dal torpore.

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Reggio Calabria - Voce potente e mai incerta, chitarra che se non fosse tutt’uno con il corpo fuggirebbe via dalle sue mani mentre libera note convulse eppure malinconiche, tipiche calabresi. Con il Parto delle nuvole pesanti prima e da solista poi, in trent’anni di carriera Peppe Voltarelli ha calcato i palcoscenici di 23 Paesi in tutto il mondo. Il suo ultimo disco La grande corsa verso Lupionòpolis, arriva otto anni dopo il prezioso Voltarelli canta Profazio con cui ha rivisitato alcune delle opere del maestro cantore del popolo calabrese scomparso in questi giorni. 

Dieci tracce di cui otto in calabrese. Un disco di inediti registrato nello storico EastSide Sound di Manhattan da Marc Urselli – tre Grammy Award e collaborazioni con Nick Cave e Lou Reed – prodotto dal pianista italiano di base a Los Angeles Simone Giuliani e suonato in presa diretta con musicisti di caratura internazionale che val la pena citare tutti: Davin Hoff (contrabasso), Jake Owen (chitarra), Stephane San Juan (batteria), Mauro Refosco (percussioni) e la partecipazione di Eleanor Norton (violoncello), Dough Wieselman (sassofono e clarinetto), Amy Denio (voce).

Peppe Voltarelli Photo ∏ Danilo SamO 2
Foto di Danilo Samà
Peppe, perché New York? 

Sono stato lì per la prima volta nel 2002, quando ho cominciato a suonare nel mondo degli italiani d’America. E da quel momento ho iniziato a coltivare un grande desiderio di dare le mie canzoni in mano a questi musicisti per fargliele suonare.

Canzoni in lingua calabrese…

Volevo far fare alla mia lingua questo salto oceanico, alternativo e libertario. New York per me rappresenta il senso dello stare insieme, un mix di lingue e civiltà che si sono sovrapposte una sull’altra e continuano a farlo. Ecco, per me New York è una città dove l’arte riesce a raccontare il fenomeno della convivenza. 

Correggimi se sbaglio: in Italia ed Europa abbiamo una percezione scorretta di questa città, quella di Friends, delle serie tv e delle commedie romantiche. E invece è molto di più, nel bene e nel male.

Assolutamente. Sin dal suo aspetto urbanistico è una città che rappresenta un grande laboratorio di idee, un luogo dove la gente si è ricostruita, rifugiata, si è rifatta un’altra vita. Dove riescono a convivere civiltà di luoghi totalmente differenti, chiaramente con tutti i problemi che questo comporta. Ci sono quartieri difficili e differenze sociali molto forti, ma il linguaggio artistico – in un certo senso – abbatte le differenze e fa emergere i contenuti. 

Ed è così che è andata anche stavolta? 

Sono entrato in questo studio di EastSide, con musicisti fortissimi, artisti incredibili che quando hanno sentito le mie canzoni in calabrese lo hanno trovato bellissimo. Era qualcosa di fresco, autentico, divertente, che raccontava una terra che molti di loro probabilmente neanche conoscevano, eppure nessuno aveva un pregiudizio rispetto alla lingua né alla cultura. Ed è questa la cosa importante per chi oggi vuole raccontare un mondo in movimento: essere curiosi, aperti verso gli altri, disponibili. Avere fiducia negli altri.

Ascoltandovi si può sentire tutta questa fiducia, come avete trovato tanta complicità?

Facendo tutto dal vivo, tutti nella stessa stanza come si faceva negli anni 60 e 70. Una cosa molto fisica. Oggi con la tecnologia digitale spesso uno registra a Katmandu e poi mette le chitarre ad Avellino, invece lì eravamo tutti insieme nello stesso spazio. Questa esperienza mi ha fatto riscoprire il contatto umano, il dialogo, gli sguardi delle persone che poi vanno a finire nella musica. 

Non si sulu mai. Eppure, anche dall’altra parte del mondo, resti sempre lo stesso Peppe Voltarelli. 

Certo. Con l’esperienza di rilettura del repertorio di Profazio mi sono accostato alla tradizione, poi ho provato a immaginare il futuro in quello che scrivo, nei miei racconti di vita letterari e cantati. La voglia di far passare la lingua non già come marginale ma come una lingua a tutti gli effetti che gode della dignità di stare dovunque: nei festival, nei libri, nei teatri e perché no anche al centro del mondo, a New York. Avere la mia lingua in quel momento lì voleva dire superare tutti gli steccati, essere lì e ovunque oltre le solite “cose da cartolina”.

C’è un muro culturale e politico intorno a noi, in Italia ma non solo, che è un muro di disinteresse, di non-curiosità, di superficialità

Hai ragione. Sul Sud, specie sulla Calabria, si abbatte un doppio stereotipo: se non sei una terra maledetta, allora sei un paradiso da cartolina. 

Sì, da noi si sta bene, non ci manca niente… 

Qua si campa d’aria”, no? 

(ride) Eh sì, si campa d’aria ed è tutto bello, ma in verità siamo un posto in cui si concentrano anche moltissime contraddizioni, come dappertutto. E la lingua è uno strumento come un altro, come un pennello, una penna o una chitarra, per raccontarle. 

Oltre a combattere gli stereotipi, qual è l’urgenza che senti?

Oggi la preoccupazione principale è quella di fare una proposta che abbia un contenuto di grande qualità, sia rispetto alla parte poetica e letteraria ma anche a quella etica. Che abbia un senso per chi mi ascolta, che mi conosca o mi incontri sulla sua strada. La mia urgenza è quella di lasciare il segno, di non sparire nel nulla. E in questo non posso non portare con me quelle che sono le tracce dei miei predecessori, della mia famiglia, degli amici e delle strade che ho calpestato. La pretesa di fare qualcosa di qualità per me non è semplice. 

Cosa rende faticosa la qualità?

Ti devi scontrare con le esigenze commerciali, chi fa questo lavoro alla fine deve fare compromessi. Pensa a quanto è cambiato l’atteggiamento dei media – delle radio e delle TV – di tutti gli operatori culturali. Oggi ci si scalda per i numeri, per gli streaming, per la quantità non più per la qualità. Quindi ti senti un po’ relegato in un angolo, come in una riserva: qualcosa di prezioso ma di cui agli altri non importa niente.

Peppe Voltarelli Photo ∏ Francesca Magnani 3
Foto di Francesca Magnani

In questo momento storico poi la qualità si scontra con un cambio generazionale molto duro, a volte anche violento. Ti può capitare di andare a suonare in un bellissimo festival e incontrare dei ragazzi di vent’anni che disconoscono la tua musica, credendola “roba per vecchi”. C’è un muro culturale e politico intorno a noi, in Italia ma non solo, che è un muro di disinteresse, di non-curiosità, di superficialità e questa cosa è molto umiliante per chi ancora si emoziona per cose come la poesia, l’umanità o le canzoni. O come il calore di una storia legata a una civiltà che sta scomparendo, la civiltà indigena che siamo noi. 

Dove trovi la forza di andare avanti?

Questa specie di timore libera l’energia, ti fa fare scelte come quando decidi di non mangiare più cibo spazzatura e solidarizzi con chi pensa che un pomodoro è un pomodoro. Non credo che la gente sia totalmente assuefatta o priva di margini cognitivi: mangiandolo ti rendi conto che un pomodoro è un pomodoro e allora cominci a dubitare di quello che ti offre la grande distribuzione. Si comincia a muovere dentro di te una voglia e una ricerca che fa cambiare te e le persone accanto a te. 

È il potere dell’azione individuale? 

Sì, te lo posso dire dal campo: non ho un management, non ho una struttura che mi segue, lavoro da solo da circa dieci anni. Ho una mia organizzazione quasi militare rispetto a quello che mi sta intorno, per fare in modo che i miei messaggi, i miei dischi, le mie canzoni abbiano un pubblico che permetta loro di camminare sulle gambe dell’indipendenza.

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