Maschile Plurale, perché ci sono tanti modi di essere uomini – Dove eravamo rimasti #17
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Bianco, eterosessuale, padre di famiglia, virile, immune da sentimenti ed esternazioni di fragilità, possibilmente con un bel fisico e una posizione lavorativa di rilievo. Questa è l’immagine stereotipata dell’uomo oggi. Questo è spesso l’unico modello maschile accettato o comunque quello a cui tutti tendono. Un maschile singolare. Ma può esistere un maschile plurale?
È ciò per cui si batte da anni – per la precisione dal 2007 – l’associazione chiamata appunto Maschile Plurale, proprio per sostenere la pluralità, la multidimensionalità, l’ampia gamma di scelte che deve esistere dell’essere uomini. Nell’ormai lontano 2015 ne avevamo parlato con Marco Deriu, il cui testimone ai nostri microfoni è oggi stato raccolto da Stefano Ciccone, che ci ha raccontato le molte evoluzioni di questi ultimi otto anni, non solo nella conformazione e nell’attività di Maschile Plurale, ma in tutto il panorama delle lotte di genere e del mondo delle relazioni, della sessualità, dell’affettività e del rapporto con il proprio corpo.
«Rispetto all’inizio dell’associazione – mi racconta Stefano – la nostra esperienza è cambiata per molti versi: siamo nati con l’idea di creare uno spazio di confronto e consapevolezza fra uomini, ma negli ultimi dieci anni è cresciuta anche una domanda sociale di impegno pubblico degli uomini e questo ha creato un cambio di pelle dell’associazione. Oggi infatti oltre al lavoro di gruppo su piccola scala, facciamo sempre più formazione nelle scuole, negli ospedali, nella polizia e così è cresciuta la dimensione relativa ai progetti di comunicazione e sensibilizzazione».
Com’è cambiato invece il contesto in cui operate?
Ma ci sono stati anche due importanti evoluzioni. Per prima cosa la violenza contro le donne è finita al centro del dibattito, quindi è venuta meno l’esigenza di farla emergere, sostituita da quella di contrastare una narrazione distorta fondata su politiche securitarie, spinte xenofobe, una lettura nostalgica dell’ordine patriarcale e così via. L’altro elemento che è cambiato negli ultimi quindici anni è che oggi facciamo i conti con la grande visibilità di un vittimismo maschile – “le pari opportunità hanno esagerato”, “il femminismo ha una ostilità preconcetta verso gli uomini”, “l’attenzione al linguaggio è eccessiva e si colpevolizza troppo”, “gli uomini sono discriminati in alcuni contesti”… – che ha sovvertito lo schema.
Quali conseguenze ha avuto questa evoluzione?
Si è prodotta una pericolosissima saldatura fra frustrazione individuale e discorso pubblico, offrendo al singolo uomo frustrato e/o addolorato per questioni personali il riferimento a una lettura storico-sociale che legittima e orienta la sua rabbia. Così invece di mettersi in discussione ci si sente vittime di complotti e quindi la violenza maschile non è più l’esercizio di un dominio ma la reazione a una presunta violenza che si subisce.
Come si può contrastare questa deriva?
Abbiamo bisogno di costruire rappresentazioni condivise e socialmente riconoscibili che raccontino il cambiamento non come una minaccia ma come un’opportunità e questo è possibile solo se come uomini troviamo le parole per dirlo. Un esempio è il caso della paternità: continuiamo a chiamare “mammi” i padri che si prendono cura e questo ha generato l’ironia di molti quando è stata approvata l’estensione del congedo di paternità, con battute come “ci vogliono ridurre a fare i mammi”. Al contrario, è fondamentale dare autorevolezza a una diversa modalità di essere uomini.
Puoi fare un bilancio della situazione in Italia riguardo alle tematiche di genere e in generale al dibattito sul mondo relazionale, sessuale e affettivo?
È evidente che in Italia viviamo un rischio gravissimo di regressione su questi terreni. In particolare dobbiamo stare attenti alla confusione che si crea fra vittimismo e riaffermazione e al paradosso della “trasgressione conformista”. Penso a personaggi come Facci, Cruciani, Sgarbi: abbiamo una malintesa idea della trasgressione, che propone modelli fortemente stereotipati come se fossero trasgressivi.
Così se metto in discussione patriarcato, omofobia, maschilismo sono un moralista e bacchettone, chi fa le battute omofobe invece può dire “è solo una battuta”. Il tema è esattamente l’opposto: la battuta spinta e la sua giustificazione non hanno nulla di trasgressivo e moderno, sono la riproposizione di un discorso vecchio che oggi prova a riproporsi. Noi dobbiamo evitare che la riflessione critica venga schiacciata sotto un approccio prescrittivo, svelare le regole invisibili naturalizzate che danno per scontato un certo modo di essere e, senza “fare la predica”, dire che non c’è nulla di trasgressivo in quella rappresentazione.
A proposito: siamo reduci dalle settimane del Pride, come sono andate?
Rispetto al Pride, dobbiamo capire che i diritti civili non appartengono solo a una categoria di persone. Anche per noi maschi bianchi eterosessuali è importante batterci contro stigmi e stereotipi perché essi imprigionano anche la nostra vita. La famiglia tradizionale ci costringe dentro a un modello stereotipato, ma spesso può capitare che non vogliamo quel ruolo in cui siamo relegati.
Allo stesso modo, lo stigma omofobo verso – ad esempio – il ragazzino omosessuale non è semplicemente una violenza su quel ragazzino, è un avvertimento che dice a tutti i maschi: “Attenti, non esprimente sentimenti, non esponetevi, non mostratevi vulnerabili”. Questo vuol dire che la tua identità di maschio è sempre sotto controllo, in pericolo, disciplinata. Non solo: questo stigma porta con sé la misoginia e l’omofobia si nutre della misoginia, dell’inferiorizzazione delle donne; dall’altro lato omofobia e misoginia sono due strumenti che disciplinano la virilità.
Quanto conta l’educazione? Per quanto sia banale questa domanda non si può non fare, perché è alla base di tutto.
Sì e infatti lavoriamo tanto nella scuole, ma proporrei una vertenza: è impossibile che una società omofoba, razzista e gerarchica educhi i propri ragazzi alla libertà e alle differenze. Riconoscere la centralità dell’educazione non deve implicare una delega alle istituzioni formative di questo cambiamento. Non possiamo pensare che senza aprire un conflitto con tutti i ruoli della società – amici, parenti, colleghi e così via – si possa delegare alla scuola il compito di cambiare le generazioni, poiché così facendo si solleva ciascuno di noi dalla responsabilità. Va inoltre riconosciuto che questo è oggi un terreno molto conflittuale, perché spesso di dice “la scuola non si intrometta”.
Esiste secondo te una via d’uscita da questa secca?
Ci sono due grandi contraddizioni: la prima è che non si riconosce la realtà in cui siamo – il processo educativo non si svolge nel recinto isolato della famiglia, ma viene influenzato dalla società tutta – quindi dobbiamo capire come la scuola può aiutare le famiglie a elaborare i mille messaggi che arrivano dalla società. Il secondo elemento di contraddizione è quello che riguarda chi dice che c’è una naturalità dei ruoli, degli orientamenti sessuali, delle differenze e quindi questo non va messo in discussione. Ma questa affermazione è contraddittoria: se questa natura è così forte perché dovremmo aver paura di raccontare che ci sono altre esperienze di vita?
Le parole contano?
Spesso chi contesta l’idea di gender paradossalmente ha paura del linguaggio, ma noi dobbiamo dare ai ragazzi strumenti e termini in più per rispondere alle incertezze e alle domande che ognuno di noi si pone nel suo percorso di vita. Noi diciamo appunto che il maschile è plurale proprio perché ci sono tanti modi di essere uomini, così come di essere donna.
Qual è la consapevolezza da parte delle giovani generazioni?
La situazione è molto complessa e non voglio dire “i giovani d’oggi sono così…”. Ma penso che ci siano alcuni segnali interessanti. Ad esempio c’è una grande fluidità nell’esperienza e nel rapporto con il corpo, ci sono ragazzi che si colorano le unghie o si vestono un un determinato modo. Tuttavia anche in questo caso bisogna capire quanto questo cambiamento sia figlio di una effettiva fluidità dei riferimenti di genere o quanto sia un ritorno alla vecchia idea del corpo come proprietà, come strumento. Quindi quello che si fa oggi non è necessariamente segno di rottura del conflitto fra maschile e femminile, anzi, potrebbe essere solo una riproposizione di modelli precedenti.
E rispetto al grande tema del rapporto con la sessualità e con il corpo?
C’è anche l’idea di grande libertà e promiscuità sessuale, che però spesso – anche qua – riproduce modelli costruiti sulla sessualità femminile come sessualità di servizio e sul controllo maschile. Permangono molte contraddizioni, ma l’elemento fondamentale su cui riflettere è l’illusione della libertà. Faccio un esempio: negli anni 60 una ragazza percepiva la propria condizione di non libertà e rompeva con il proprio destino, oggi invece è più difficile vedere i condizionamenti invisibili che spesso sono spacciati per trasgressione. Per i maschi è ancora più difficile, perché per i maschi la trasgressione è sempre stata quasi un obbligo. Per loro il rapporto fra presunta trasgressione e condizionamento è molto più ambiguo e difficile da riconoscere, oggi forse ancor più di ieri.
Proviamo a chiudere con un’indicazione, una suggestione, un obiettivo da raggiungere, fra i tantissimi.
Dobbiamo rendere visibile l’invisibile, evitando una lettura moralistica. Credo che oggi un obiettivo possa essere offrire a quei corpi una rappresentazione diversa: il corpo nudo femminile non è un’offerta, non è un assoggettamento, ma può essere l’affermazione di un desiderio, così come il corpo nudo maschile non è solo performatività e dichiarazione di virilità.
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