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Le pupille stanche color cera continuano a guardare verso il basso, come se cercassero con una pacata insistenza un punto dove riposare. Le braccia fini e ossute cascano tra i risvolti beige del burqa della mamma mentre il collo sottile sembra reggere a fatica il peso di una testa spigolosa dove capelli chiari e radi coprono a malapena la pelle secca e olivastra. Ogni tanto le braccia della mamma lo strattonano leggermente come per svegliarlo da un torpore che pare mantenerlo in uno stato di perenne dormiveglia.
La sala di attesa della clinica di Pahstun Abad è colorata dagli abiti lunghi delle donne appoggiate in silenzio sulle panche di legno. Piccoli gruppi di bambini a piedi nudi giocano con degli avanzi di carta tra le folate di vento e le capriole della sabbia ocra. Le grate dei burqa si spostano ritmicamente tra l’angolo dei giochi e la porta della sala di consultazione. I gridolini contenuti dei bambini e la voce squillante dell’infermiera che si affaccia per chiamare le donne alla visita sono gli unici suoni a rompere il silenzio immobile del deserto intorno.
Z. non gioca, resta fermo aggrappato con poca convinzione al ventre della madre. Di tanto in tanto le nocche delle piccole dita lunghe si stringono più forte al panno dell’abito, come a volerne strappare un pezzo. Poi le palme tornano molli e la presa si scioglie in una sorta di carezza. Quando l’infermiera chiama il nome della mamma la sua testa legnosa accenna un piccolo sussulto. Le braccia larghe della donna lo lasciano cadere su una spalla e insieme entrano nella struttura di fango e terra cruda utilizzata per le visite.
Z. ha quattro anni e pesa poco meno di dieci chili. È il quarto di sei figli, stretti in in una capanna di fango e lamiera poco fuori un villaggio sabbioso tra Pashtun Abad e la frontiera con il Pakistan. Per raggiungere la clinica hanno camminato un’ora. Basta un rapido sguardo ai contorni degli occhi color crema e alla circonferenza esile del braccio per rendere evidente al medico della clinica lo stato di malnutrizione acuta in cui versa. La voce incerta e bassa della madre racconta della sua indolenza e incapacità a rispondere anche ai più semplici stimoli. Lascia uscire l’ultima sillaba dalla grata del burqa e con un leggero strattone tenta di smuovere il bambino tra le sue braccia.
Z. accenna una piccola reazione tentando di aggrapparsi al panno beige ma presto la mano si allarga in un molle gesto di resa e le palpebre si riabbassano lasciando intravedere solo uno spicchio delle pupille. La regione di Kandahar nel sud dell’Afghanistan è tra le aree del paese che maggiormente sta subendo le conseguenze del terzo anno consecutivo di siccità. La mancanza di pioggia si intreccia a una inflazione diffusa che ha reso difficilmente accessibili ai più i prodotti di sussistenza basilari e un rigido divieto di lavoro per le donne imposto dai talebani che condanna le famiglie più numerose a contare su un unico ingresso economico che spesso non supera i tre dollari al giorno.
Il World Food Program stima che attualmente in Afghanistan nove milioni di persone rischiano di cadere in uno stato irreversibile di malnutrizione acuta o grave. Secondo il coordinamento delle Nazioni Unite nel paese 28 milioni di persone, circa il 70% della popolazione totale, vive in uno stato di profondo bisogno socio-sanitario. Le conseguenze di questa situazione drammatica colpiscono in maniera più violenta i bambini sotto i cinque anni e le donne, costrette dall’imposizione di una sharia eccezionalmente misogina ai margini di tutti i servizi essenziali.
«La malnutrizione è divenuta la prima causa di mortalità nell’area per bambini sotto i cinque anni», ammette il medico Mirwais della struttura di Pashtun Abad gestita dalla ONG italiana Intersos. «Spesso anche le donne partorienti sono malnutrite e l’effetto della malnutrizione colpisce il neonato che così sin dai primi mesi riceve un latte insufficientemente proteico. Come clinica tentiamo di prevenire queste condizioni con un percorso di accompagnamento prenatale ma la gravità della crisi è ben oltre le nostre capacità».
Terminata la visita, la mamma e Z. vengono accompagnati nella farmacia della struttura dove ricevono le razioni di integratori ultra-proteici necessari per tentare di sollevare il peso del piccolo e dare forza alle palpebre appesantite dal torpore della malnutrizione. La paura è che a casa anche gli altri figli vivano una condizione simile e le barrette dolciastre di Plumpynut possano farsi piatto condiviso per tutti così diminuendo le possibilità di cura di Z. Nell’emergenza vorace i contorni della scelta si fanno fumosi e labili.
Di fronte allo sportello della farmacia color terra lo sguardo nascosto della donna esita un secondo, il sacchetto di medicinali appeso a un dito e il corpicino del figlio stretto all’altro braccio. Accenna un breve segno di assenso in cui sembra leggersi una gratitudine muta e rassegnata, prima di voltarsi e mettersi in cammino tra i rantoli del vento primaverile divenuti d’improvviso più intensi.
I contorni sfumano dietro al muricciolo di fango secco della stradina al di là della statale che porta fino al confine. Gli occhi di Z. fanno su e giù al ritmo cadenzato del passo della mamma. Si aprono in un ultimo cenno di saluto timido e indolente prima di nascondersi negli sbuffi di una nuvola di sabbia grigiastra.
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