Agnoletto: “Genova 2001, quando abbiamo lottato per le generazioni future”
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Genova - Sono passati oltre vent’anni da Genova 2001, un momento che ha segnato la vita di molte persone e che ancora oggi, dopo tante analisi politiche, indagini e processi, è ancora una ferita aperta nella storia italiana. I fatti avvenuti tra il 19 e il 22 luglio di quell’anno sconvolsero il mondo e segnarono la fine di un’epoca. Abbiamo parlato di quei pochi ma indelebili giorni con Vittorio Agnoletto, il medico che fu portavoce del Genoa Social Forum.
Vittorio, come racconteresti a una ragazza o a un ragazzo nato nel 2001 o dopo l’epoca di Genova?
Direi loro che abbiamo fatto di tutto per lasciare ai giovani un mondo migliore e che il movimento altermondialista dell’inizio di questo millennio ha rappresentato un atto di enorme generosità perché, come ha ricordato Susan George, è forse stato il primo movimento di persone che non lottavano per avere un vantaggio per sé stesse, ma che lottavano per le generazioni future.
Ci siamo scontrati con dei poteri estremamente forti, poteri politici, economici e finanziari che non hanno esitato a utilizzare qualunque forma di repressione per stroncare quel movimento. Proprio quel movimento però ha prodotto risultati importanti in tante parti del mondo. Penso, per esempio, a quanto è avvenuto in America Latina, dove l’incontro tra i movimenti e le forze politiche di sinistra ha aperto un decennio di grandi cambiamenti nel quale milioni e milioni di persone sono state sottratte alla fame.
In Europa il movimento è stato stroncato dalla repressione, ma ha seminato molto. Per esempio, credo che il risultato ottenuto dieci anni dopo sul referendum per l’acqua bene comune sia stato anche frutto del movimento di Porto Alegre e di Genova. Prima di quegli anni non esisteva nemmeno il termine “beni comuni”, mentre sia a Porto Alegre e a Genova nel 2001 si comincia a dire in modo molto chiaro che ci sono dei beni essenziali per la vita umana e che devono essere sottratti alle leggi e alle logiche nefaste del mercato.
Alcune caratteristiche di quel movimento erano innovative, dalle decisioni prese per consenso alla capacità di trovare convergenze fra diversi. Secondo te cosa ci hanno lasciato oggi le intuizioni del movimento altermondialista?
Quel movimento ha rappresentato un’esperienza unica nella storia del nostro Paese, non c’era mai stato un movimento così vasto in grado di muoversi in modo unitario. Abbiamo sempre preso le decisioni per consenso, è vero, ma l’interessante è spiegare in che modo abbiamo praticato questo obiettivo: non dovevamo per forza essere tutti d’accordo su tutto. Ci siamo detti: abbiamo tutti sottoscritto un “patto di lavoro” e un documento sulle forme di mobilitazione che delineano l’orizzonte dentro il quale ci muoviamo; sono le idee e le regole che tutti abbiamo condiviso.
Pensiamo a Genova, a venerdì 20 luglio, quando abbiamo circondato la zona rossa: l’obiettivo era che nessuno dei portavoce si alzasse per dichiarare: “No, l’iniziativa che voi proponete è in contrasto con il Patto di Lavoro e con quanto abbiamo sottoscritto”. I missionari, ad esempio, potevano dire: “Io pregherò a Boccadasse e non parteciperò al corteo delle Tute Bianche, ma ritengo che le modalità con cui sarà organizzato quel corteo siano interne a quanto previsto dai documenti che tutti abbiamo sottoscritto.” E così via.
Chi aveva proposto l’iniziativa delle Tute Bianche diceva: “Noi faremo il corteo con le modalità indicate, nel rispetto delle persone e delle cose e non andremo a Boccadasse a pregare perché non siamo credenti, ma riteniamo che anche quella scelta si inserisca all’interno di quanto scritto nel Patto di Lavoro. In questo modo, la sintesi uscita dalla riunione dei portavoce non era un accordo al ribasso, ma un’intesa che rilanciava e teneva unito il movimento.
Il consiglio dei portavoce, costituito da diciotto persone, era anch’esso uno strumento importante di democrazia. Ogni portavoce si riferiva a un gruppo di associazioni, comitati, sindacati, di base e Fiom e via dicendo con il quale era omogeneo per settore di intervento: dalle associazioni che lavorano sull’ambiente e quelle di solidarietà coi migranti, a quelle impegnate nella tutela della salute. Una volta assunte le decisioni il portavoce del movimento, il sottoscritto, le doveva comunicare all’esterno, cercando di rappresentare l’immagine e l’unità del movimento. Era un’unità reale ed è quella che ha spaventato molti poteri.
Infatti, hanno fatto di tutto per cercare di rompere quell’unità. Ecco, credo che questo modello potrebbe fornire anche idee e suggerimenti nella situazione attuale dove vi sono diversi movimenti e campagne, spesso monotematici, che hanno difficoltà nel lavorare insieme e a costruire delle reti. Forse da quell’esperienza ci può arrivare qualche insegnamento.
Dal 1992 al 2001 sei stato presidente nazionale di LILA – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS. Hai avuto importanti incarichi presso il Ministero della Salute e nel 1994 sei stato “medico dell’anno” secondo la rivista specializzata Stampa Medica. La visibilità che ti ha dato l’essere stato il portavoce del Genoa Social Forum ha in qualche modo determinato cambiamenti nella tua vita professionale? Hai subito ritorsioni a causa delle tue scelte?
Non vi è ombra di dubbio che l’esperienza del Genoa Social Forum abbia modificato completamente la mia vita, anche perché contro il GSF è stato costruito un muro durissimo – lo dobbiamo dire – dall’insieme del sistema politico, partitico, mediatico. Salvo pochissime eccezioni è subentrato un tentativo di criminalizzare fortemente il movimento. Non dimentichiamo che addirittura ci sono state proposte di considerare il GSF un’associazione sovversiva. E ovviamente anche la mia vita e la mia figura ne hanno risentito.
Sono stato escluso e buttato fuori dalla Commissione Nazionale AIDS e dalla Commissione per la lotta alle tossicodipendenze, che facevano riferimento una al Ministero della Sanità e l’altra al Ministero degli Affari sociali. Sono stato espulso da un giorno all’altro. Non perché non avessi più le competenze scientifiche, ma per decisione politica dei ministri di allora. La mia vita anche lavorativa ha dovuto ricominciare completamente dall’inizio. Eppure, avevo già quarantatré anni.
Detto questo, rifarei tutto perché credo che nella vita sia importante essere coerenti nei comportamenti con quello che si pensa, con le proprie idee, consapevoli che quando si fanno determinate scelte queste poi si pagano. Anche perché che senso avrebbe avuto continuare a battermi con la Lila per far arrivare i farmaci contro l’AIDS in tutto il mondo, lottando contro i brevetti e contemporaneamente far finta di non sapere che quelle decisioni erano frutto delle politiche neoliberiste decise dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, d’accordo con Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale che in quella fase storica operavano sotto la regia del G8? Non sarebbe stato serio non denunciare quelle responsabilità. Poi ognuno ovviamente sceglie che senso dare alla propria vita.
Dopo Genova 2001, lo smarrimento si è impadronito di molte persone, soprattutto di molti giovani che hanno sperimentato il volto feroce dello Stato. Quel volto feroce che anche oggi si manifesta verso le persone più deboli e indifese. Pensi che l’azione nonviolenta che comincia a manifestarsi, soprattutto in forma spontanea, possa diventare contagiosa ed essere motivo di speranza?
Mi auguro che l’azione nonviolenta possa diventare contagiosa. Credo alla forza delle azioni nonviolente quando sono azioni collettive e di massa; per realizzare queste è necessario un altissimo livello di consapevolezza e di coscienza politica. Costruire azioni nonviolente di massa richiede tempo, esperienza e grande fatica, ma è evidente che il confronto deve svolgersi su questo terreno. Se andiamo su altri terreni rischiamo di contribuire alla fine della Storia umana. Alla fine del pianeta. Non credo che ci possa essere una soluzione con la forza. Non lo credo per quello che riguarda le dinamiche sociali e tanto meno lo credo per quello che riguarda il quadro politico internazionale, con riferimento anche all’attuale guerra in Ucraina.
Sei stato parlamentare europeo dal 2004 al 2009 e in seguito, nel 2010, candidato alla presidenza della Regione Lombardia. Poi, nel 2015 hai fondato, insieme a Emilio Molinari e Piero Basso, l’associazione Costituzione Beni Comuni. Questa scelta di “uscire” dall’ambito istituzionale da cosa è stata motivata? Quali sono gli ambiti di cui si occupa l’associazione?
Costituzione Beni Comuni si occupa dei temi contenuti nel nome stesso dell’associazione: si batte per difendere i principi della Costituzione italiana e in particolare per sottolineare come i diritti devono prevalere sulle leggi del mercato. In questo contesto troviamo la battaglia per i Beni Comuni, per l’acqua, per l’accesso ai farmaci, impegno che condivido anche in Medicina Democratica per un lavoro stabile sottratto alla precarietà e per tante altre istanze.
Ma il punto centrale è sempre il conflitto, che attualmente attraversa tutto il mondo, tra la logica del profitto e l’affermazione dei diritti umani. Non vi è nessuna possibilità di mediazione, anche perché i diritti sono un unico insieme indivisibile e questo oggi è estremamente attuale. Non si possono dividere i diritti civili dai diritti sociali o ci sono entrambi o non ci sono i diritti. I diritti civili riguardano più gli aspetti dell’individualità, mentre i diritti sociali riguardano quella parte di ciascuno di noi che è collettività e che è socialità e ambedue questi diritti hanno dietro secoli di lotta. Non bisogna dividerli. Li dobbiamo tenere insieme. Questo è uno dei principi fondanti di Costituzione Beni Comuni.
Credo che in questo momento il ruolo che possono svolgere le associazioni e la società civile e i movimenti possa essere estremamente importante. Nel mondo politico vedo degli orizzonti molto limitati e anche troppo autocentrati. Siamo in un momento complicato. Gli schemi del passato servono poco. Necessitiamo di elaborare nuovi orizzonti e nuovi immaginari sul mondo che vogliamo e credo che questo lavoro fondamentale possa realizzarsi principalmente nella società civile. Detto questo non è che il bene sta da una parte e il male dall’altra.
La politica istituzionale è e resta assolutamente necessaria, così come nella società civile abbiamo purtroppo esempi di associazioni che mettono al primo posto l’esaltazione della loro identità anziché gli obiettivi per i quali dicono di battersi. Quindi non esiste una linea di demarcazione così netta, ma credo che oggi la priorità sia quella, dentro il mondo della società civile, di elaborare e di sperimentare nei territori pratiche di democrazia e di liberazione, perché una teoria senza pratiche non va lontano.
Secondo la tua esperienza e guardando alla realtà odierna, su quali temi le realtà attente alla solidarietà e alla costruzione di umanità dovrebbero oggi maggiormente impegnarsi?
I temi li conosciamo tutti. Oggi siamo consapevoli che per la prima volta nella storia umana vi è il futuro dell’umanità e il futuro del pianeta e non è detto che le due cose coincidano per forza. Perché potrebbe, un domani, esserci anche un pianeta senza umanità per come siamo messi. Quindi l’obiettivo principale è dare un futuro al Pianeta e agli esseri viventi e per fare questo è necessario cambiare il modello di sviluppo e anche rallentare e modificare i ritmi delle nostre vite.
È altresì necessario costruire sperimentazioni di convivenza globale e quindi estromettere la guerra dalla Storia e tutto questo non si può fare senza una lotta per la giustizia sociale. Oggi è prioritario costruire ponti tra i vari movimenti. Esistono i movimenti per la pace, quelli per i diritti dei migranti, movimenti ambientalisti e quelli per il diritto alla salute e all’abitare, solo per citarne alcuni. Dobbiamo avere la stessa consapevolezza che abbiamo avuto vent’anni fa costruendo il Genoa Social Forum: nessuno di noi può vincere la propria singola battaglia. Da soli noi non vinceremo mai.
Parlo anche di me, del nostro impegno contro i brevetti sui farmaci e sui vaccini, campagna che non potrà raggiungere il suo obiettivo se non riusciremo almeno a ridimensionare fortemente il potere dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) che è uno dei pilastri del neoliberismo. L’OMC è anche l’organizzazione che distrugge l’agricoltura di prossimità, protegge l’agrobusiness, favorisce la conquista dei terreni in Africa da parte delle multinazionali con il conseguente abbandono delle terre da parte dei contadini e i processi migratori forzati che ne conseguono. Allora se, dalla parte del neoliberismo tutto si tiene, è fondamentale che a maggior ragione questo avvenga anche dalla nostra parte.
Dobbiamo far sì che i nostri movimenti, pur rimanendo centrati sulla propria specificità, imparino a lavorare insieme a trovare le connessioni. Così come abbiamo imparato che ogni lotta ha una dimensione locale e una globale, oggi dobbiamo essere consapevoli che una campagna settoriale non ha nessuna possibilità di cambiare la nostra situazione e di costruire un futuro diverso. Forse è assolutamente inflazionata questa parola –ponti – però credo che sia attuale, non solo per ripudiare le guerre; dobbiamo costruire ponti e ponti, reti e strumenti di connessione e comunicazione ed è anche venuto il momento di dire che queste devono essere imprese collettive. Davanti non dobbiamo mettere l’“io”.
Nel momento in cui l’umanità rischia di non avere futuro davanti ci deve essere il “noi” e per “noi” dobbiamo intendere l’insieme dell’umanità. Non è un principio religioso o puramente etico, è certamente anche un principio etico, ma oggi coincide con l’obiettivo della sopravvivenza ed è quello che ci distingue dall’avversario. Perché il neoliberismo ci sta massacrando tutti, sta concentrando il potere in un numero sempre minore di persone, ma poi, tra gli stessi rappresentanti del neoliberismo si innescano guerre e confronti letali per la conquista di fette sempre maggiori di mercati e di profitti.
Così come, per fare un esempio su un altro terreno, il nazionalismo, produce conflitti e guerre tra i sostenitori dei vari nazionalismi che oggi sembrano uniti come un solo uomo nel dare la caccia ai migranti. È sufficiente guardare quello che in queste settimane sta accadendo tra il nostro governo, la Polonia e l’Ungheria. Ecco noi dobbiamo avere proprio una prassi diversa. Superare ogni forma di individualismo e lasciare lo spazio al “noi” e noi è l’umanità: l’umanità intera.
Su quali basi e con quali soggetti potrebbe riemergere oggi, a livello nazionale e internazionale, un movimento con tanta intensità?
Se sapessi rispondere non saremmo qui a discutere, ma staremmo conducendo delle battaglie vittoriose. Penso solo che oggi non ci sia più spazio per movimenti a dimensione puramente nazionale: lo scontro è globale, i movimenti devono essere globali, le strategie devono essere globali. Questo è anche uno dei motivi della crisi della politica, perché la politica partitica, se va bene, si dà un orizzonte nazionale e in tempi limitatissimi, ad esempio quelli di una legislatura legati alle fortune di uno o di un altro leader. Quindi dobbiamo costruire movimenti universali e alleanze con i popoli di tutti i continenti, avendo la capacità precisa di individuare l’avversario.
Un esempio che continuo a ripetere: è inaccettabile che la vita di sette miliardi e 800 milioni di persone sia nelle mani di quattro o cinque consigli di amministrazione di aziende che producono farmaci e vaccini e che ne detengono i brevetti. Organizzare una campagna mondiale contro questa situazione significa organizzare una vertenza mondiale per un vero diritto alla vita; dopodiché questa si deve connettere con le altre campagne, come quelle per la difesa dell’ambiente perché sappiamo che non ci può essere un futuro per solo un pezzo di umanità.
Dobbiamo sottolineare e non sottovalutare due aspetti. Innanzitutto l’importanza dell’informazione: la rete è fondamentale perché oggi, anche nei Paesi occidentali, non solo in quelli con sistemi dittatoriali, i mezzi di comunicazione sottostanno a logiche monopolistiche e in Italia lo sperimentiamo molto più che in altri Paesi. Anche per questo è importante il lavoro e l’impegno che voi portate avanti quotidianamente, un contributo piccolo, ma che si inserisce in un processo ampio, fondamentale e articolato di informazione alternativa.
L’altro aspetto importantissimo è l’educazione, che significa anche costruzione di memoria. Sono preoccupatissimo del fatto che le giovani generazioni studino sempre meno la storia, che non conoscano il passato e quindi abbiano difficoltà a connettere tra di loro i singoli eventi e a dotarsi di una lettura generale. È fondamentale fare informazione, educazione e formazione e non è un caso che il nostro avversario, cioè il neoliberismo, agisca per distruggere la scuola pubblica e l’università. Al neoliberismo non servono persone pensanti, non ha bisogno di cittadini in grado di sviluppare una capacità critica. Il neoliberismo ha bisogno solo di persone pronte a obbedire.
Se vuoi saperne di più, qui trovi il nostro dossier dedicato al G8.
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