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Roma, Lazio - È una sera di giugno, siamo a Roma, al Teatro di Documenti. Tutto è coraggioso e visionario in questa storia teatrale. È quella di Appelsinpiken, una performance di teatro immersivo, restituzione finale di un anno di allenamento creativo all’interno de L’Atelier- Spazio aperto di ricerca teatrale, ideato e orchestrato da Alessia Cristofanilli. Tutto è coraggioso e visionario nella storia che sto per raccontare.
Coraggioso e visionario è l’Atelier teatrale portato avanti da Alessia Cristofanilli tutti i lunedì sera con esercizi di tecniche attoriali, training teatrale derivante da maestri come Grotowski, Eugenio Barba, e Peter Brook, ricerche e approfondimenti teorici, creazione collettiva e ricerca artistica. «Mi sono chiesta: se avessi la possibilità di creare uno spazio proprio come lo vuoi tu, cosa ci vorrebbe?», e così è nato l’Atelier, ci spiega Alessia.
Uno spazio aperto a tutte e tutti, in cui creare piccoli pezzi di artigianato, con un tempo lento, «L’atelier vuole essere un luogo di incontro e di allenamento creativo ed espressivo, dove attraverso il gruppo e una guida si può far germogliare un’ idea». Uno spazio fisico e mentale che durante l’anno è stato attraversato da decine di persone, anche solo per una lezione, e concluso da sei attori: i protagonisti di Appelsinpinken.
Coraggiosa e visionaria è appunto Appelsinpiken, una performance di teatro immersivo in cui il pubblico è invitato a guardare e vivere da dentro la storia narrata. Perché ci sono molti modi per conoscere una storia: leggerla, ascoltarla, vederla. E poi c’è la possibilità di entrarci dentro per dischiuderne la trama con le mani, interagire con i personaggi e sceglierne i sentieri. Quest’ultimo è il modo che il gruppo ha scelto per raccontare questa storia semplice e avvincente, fatta vivere come un’esperienza.
Gli spettatori sono stati coinvolti e hanno attraversato diversi ambienti e situazioni con i cinque sensi. Ed è stata una performance site specific, ossia ideata per un luogo specifico e davvero speciale: il Teatro di Documenti, un gioiello di architettura teatrale, voluto, ideato e costruito dal maestro Luciano Damiani negli anni 80. Grande scenografo del Novecento e artista teatrale innovativo, ha deciso di creare un teatro che prima non esisteva, un luogo democratico e popolare, dove attori e spettatori, si unissero eliminando la tradizionale separazione tra palco e platea, dietro/davanti le quinte.
ATTO I: L’ESPERIENZA DELL’ATELIER
«L’atelier è stato come una nuotata in mare aperto. Ho voluto che fosse uno studio d’artista in cui si può entrare anche solo una volta e trovare sempre spunti per la creazione. Ed è stato caratterizzato da una dimensione collettiva e una pedagogica. Ora posso dire che ne è valsa la pena», commenta Alessia, la regista e maestra. L’Atelier- Spazio aperto di ricerca teatrale è solo uno dei progetti del suo Fragile Spazio. Ma questa è un’altra storia.
Il primo anno di Atelier è stato un’esperienza unica per i suoi partecipanti «Quella che per me si apprestava a essere un hobby o un’esperienza diversa dal solito si è trasformata in uno dei tratti più ferventi della mia vita, che hanno coinvolto anima, corpo, memorie, condivisioni, dubbi, risvolti, incontri e nuove consapevolezze» dice Luca. «Quando sono arrivata non avevo idea di cosa aspettarmi. Camminavo verso questa esperienza e lasciavo che il dubbio e l’incertezza solleticassero la mia fantasia. È stato un prendere ciò che avevamo dentro, metterlo fuori di noi e dargli una forma. Parlargli. Ascoltarlo. Lasciarci guidare e vedere dove ci faceva arrivare», gli fa eco Giulia.
Una sfida, «uno spazio di libertà» per Daniele. Per Giulio invece «è stato un percorso molto radicato nello spazio, il Teatro di Documenti, che è diventato il nostro affascinante punto di ritrovo. L’Atelier è stata, tra le altre cose, l’opportunità di riprendere un percorso di crescita personale e artistico». E dulcis in fundo Maria Chiara, a cui ha dato modo di «avvicinarmi al teatro da un diverso punto di vista, più fisico ed emozionale. Vivere questo percorso ha significato partire da un lavoro sulla mia persona ascoltando il corpo e le sensazioni, entrando in punta di piedi nell’immaginazione e nella creatività per poi ritrovarmi in accoglienti scene corali, la cui forza scaturiva dalla sintonia creata con il gruppo».
ATTO II: APPELSINPIKEN
Georg, Veronika, Jan Olav: questi i protagonisti della storia, interpretati e moltiplicati dai sei attori e anche dalla regista volante che «in questo sport estremo che è stata la creazione della perfomance, oltre che della regia, mi sono occupata di traghettare il pubblico da uno spazio all’altro insieme all’attrice Giulia De Luca».
Poi c’è Luca che interpreta Georg, «il bambino che aveva perso il padre a quattro anni. Pur non essendo paragonabile a eventi della mia vita, ho riflettuto sull’ipotesi di perdere mio papà a quell’età e a ciò che da figlio mi sarei perso. Ho provato nostalgia, rimpianto e disperazione, ma anche una forza estrema nel credere nell’importazione del presente. Ho cercato di fondere questi pensieri e permettere a Georg di esprimerli».
Daniele invece è Jan Olav da adulto, «quando è già malato e desidera raccontare la storia della ragazza delle arance al figlio. L’ho fatto immaginando uno stato d’animo che avesse insieme arrendevolezza e inquietudine, stanchezza e voglia di vivere». E Giulio è Georg, ma anche Jan Olav, fa monologhi di presentazione e performance musicali. «Mi sono rispecchiato molto negli aspetti materici/perfomrativi del nostro lavoro».
Le due attrici interpretano Veronika, ma non solo: «Nella prima scena, la stanza dell’infanzia, faccio le bolle di sapone, un ruolo in cui mi sono sentita molto comoda e a mio agio. In un’altra sono la voce narrante. E poi Veronika: un ruolo cucito addosso per me, un po’ dissacrante e un po’ peperina. Semplicemente io». Maria Chiara, prima di essere Veronika, apre Appelsinpiken «cantando un brano a cappella all’interno della stanza dell’infanzia. Momento molto contestualizzato per me, poiché si tratta di un antico canto in lingua arbresh, legato alla mia di infanzia».
ATTO III: IL CAMBIAMENTO FINALE
Dopo un anno di Atelier e con la creazione e messa in atto della performance, si dicono tutti profondamente cambiati. Alessia per prima, che evolve con giravolte e fioriture nel suo lavoro di regista e insegnante. Luca è riuscito a esplorare ed esplorarsi senza filtri o giudizi. Giulia si sente parte di qualcosa di grande, qualcosa di essenziale, in cui è diventata fondamentale e Maria Chiara ascolta di più le sensazioni inviate dal corpo e osserva tutto con occhi diversi, grazie allo studio del real meraviglioso e all’allenamento a cercarlo in ogni cosa. Per Giulio l’esperienza ha avuto un sapore di radicamento, solidità, crescita e dignità, in un momento particolarmente delicato a livello personale.
IL FINALE, PER POI RICOMINCIARE
Una composizione ordinatamente caotica, uno spazio fragile, ma radicato: questo è stato l’Atelier e la performance Appelsinpinken. Un anno di scambi e creazioni, di crescita e generazioni. Un luogo fisico e artistico in cui le caotiche imperfezioni di tutti si sono mischiate generando arte e amicizia.
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