A Tempo di Vivere nasce un villaggio diffuso per ripopolare i borghi – Dove eravamo rimasti #15
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Piacenza, Emilia-Romagna - La prima volta che visitai Tempo di Vivere era il 2015 e l’ecovillaggio si trovava ancora nei pressi di Marano, sull’appennino modenese. Rimasi fortemente impressionato da Katia, Ermanno e le altre persone che avevano lanciato questa esperienza di vita comunitaria. In particolare mi colpì la naturalezza con cui riuscivano a mescolare le loro varie anime – come singole persone e come comunità –, dall’attenzione per gli aspetti relazionali ed emotivi allo sforzo per la riduzione del proprio impatto ecologico, fino alla chiarezza del messaggio “politico” che la loro scelta di vita trasmetteva e trasmette tutt’ora.
A distanza di otto anni da quella prima – ma non unica – visita, li ho risentiti per farmi raccontare cos’è oggi Tempo di Vivere e sono stato investito da un’enorme quantità di stimolanti novità. «A livello generale abbiamo notato un grande boom di interesse per ecovillaggi e comunità a cavallo del lockdown, seguito però da un rinculo all’indietro una volta che la situazione si è di nuovo normalizzata», mi spiegano da dietro lo schermo Katia, Ermanno, Gabriella e Tania.
UN PODERE DA CHIAMARE CASA
Ma Tempo di Vivere com’è cambiata in questi anni? C’è una grande novità: il podere di Bettola – borghetto della montagna piacentina dove l’ecovillaggio si è spostato una volta lasciata la prima sede – sta diventando di proprietà dell’associazione collegata al progetto. «Abbiamo deciso di mettere radici perché questa zona ci piace, il proprietario è molto supportivo verso di noi e ha una visione simile alla nostra, pur venendo dal mondo dell’imprenditoria», spiegano. «Anni fa ha iniziato a acquistare e ristrutturare immobili in zona per combattere lo spopolamento e attirare gente che volesse avviare dei progetti duraturi e creare un contesto nuovo».
Il podere conta quasi 900 metri quadri di strutture più circa 10 ettari dei terreni. Dall’anno scorso i membri di Tempo di Vivere gestiscono anche 3 ettari di noccioleti biologici, mentre in un agriturismo sempre della stessa proprietà si è insediata un’altra piccola comunità che ora pratica ospitalità rurale. «L’anno scorso il proprietario ci ha proposto la gestione dei noccioleti e li abbiamo affittati, iniziando a prenderci cura di 1200 piante semi abbandonate; pur essendo il primo anno, abbiamo prodotto due quintali di nocciole».
Ma l’idea di acquistare il podere non deriva solo dal fatto che il proprietario è ben disposto e che la zona è accogliente. Questa operazione è il punto di partenza per un’idea molto più interessante e strutturata: «Ci siamo resi conto – confessa Katia – che la nostra funzione nel mondo comunitario è essere un punto di riferimento. Questa zona è piena di paesini e frazioni che stanno morendo e noi vogliamo creare una specie di villaggio diffuso che metta in rete gruppi, singole persone, famiglie, piccole realtà che vogliono cambiare vita senza necessariamente andare a vivere in una comunità. Per questo abbiamo dato stabilità alla nostra presenza con l’acquisto del podere».
Questa idea è piaciuta molto al proprietario dell’immobile, che è venuto loro incontro: «Dopo esserci accordati, abbiamo chiuso il contratto d’affitto e stiamo acquistando a rate direttamente da lui, senza mutuo. È un’operazione che richiede una grandissima fiducia reciproca ed è possibile perché c’è un ottimo rapporto sia con lui che con la famiglia Come forma di autofinanziamento abbiamo aperto un crowdfunding per pagare entro dicembre 2023 la seconda rata, dopo aver saldato la prima a dicembre 2022».
LA SCUOLA STABILE
Anche in periodo di grandi rivoluzioni, rimangono però dei punti fermi come la scuola stabile della Circle Way Academy, un progetto formativo nato con l’idea di non rimanere ancorato ai singoli eventi della Via del Cerchio ma di proporre un percorso di cambiamento prima di tutto interiore e personale, per far sì che le persone “camminino” il cambiamento nella quotidianità. Nel primo dei tre anni previsti, i partecipanti hanno approfondito tutti gli aspetti anche pratici affrontati dalla Via del Cerchio – dalla comunicazione alla leadership, dal rapporto di coppia all’energia maschile e femminile – in un programma di un weekend al mese incentrato sui vari temi con dei mandati mensili di lavoro finalizzati all’auto-osservazione e all’attuazione di azioni di cambiamento.
È un lavoro che non si ferma al singolo weekend, ma si svolge in gruppo – il clan – e si basa su gesti concreti da compiere: «Queste azioni sono molto utili, i partecipanti hanno fatto passi da gigante. I successivi due anni servono a implementare le proprie capacità trasformandole in dono all’esterno: come posso mettere il mio talento a servizio di disegni più grandi? L’obiettivo a lungo termine è creare progettualità e alternative di cambiamento sostenibile, esterno e interiore».
Sono queste tematiche che la comunità di Tempo di Vivere ha sempre affrontato, che però adesso sono state riattualizzate all’interno di un percorso strutturato. «Addirittura – racconta Katia – abbiamo incontrato un gruppo di imprenditori che vogliono portare la Via del Cerchio nel contesto aziendale, creando un percorso di formazione e generando una gestione d’azienda collaborativa».
IDENTITÀ
«Ogni tanto ci interroghiamo su quale sia la nostra identità», ammettono. «L’aspetto più forte è “essere realmente una comunità” di un certo tipo, che alcuni definiscono addirittura “estrema”. Abbiamo ancora tanto cammino da fare secondo noi, ma ci accorgiamo che gli obiettivi che ci poniamo come gruppo – crescita personale quotidiana, economia condivisa, scuola condivisa, non avere uno spazio di rifugio privato – e la costanza con cui li perseguiamo ci hanno attribuito una connotazione quasi radicale».
La storia stessa di Tempo di Vivere dimostra che la sua struttura comunitaria è un esempio abbastanza saldo: «Abbiamo lavorato molto su di essa, sulle linee rosse, sui processi di avvicinamento e su altri aspetti cardinali; insomma c’è stata una grande evoluzione. Dobbiamo trovare il modo di passare meglio il nostro messaggio. Abbiamo lavorato per mesi sul crowdfunding, ma ancora non decolla, abbiamo spiegato che non c’è alcun profitto per i singoli e vorremmo coinvolgere in questo sogno le persone che possono capire il progetto, ma sembra che il messaggio sia difficile da trasmettere».
«Stiamo focalizzando i nostri open day sul confronto – aggiunge Katia –, chiediamo esplicitamente ai partecipanti: “Di cosa avete bisogno da parte nostra, cosa possiamo dare?“. In questo modo stanno venendo fuori dei begli spunti. Il nostro obiettivo adesso è creare un gruppo di pionieri. Stiamo cercando di capire come diversificare le nostre attività e ora ci basiamo sulle forze che abbiamo senza escludere un ampliamento. Per ora siamo in 14, c’è una famiglia che sta già cercando casa qui intorno e saranno i primi pionieri della comunità allargata, più altre due persone molto interessate».
CREARE COMUNITÀ
Comunità allargata, appunto. È questo un concetto chiave della fase di vita che il progetto di Tempo di Vivere sta attraversando: «Vogliamo creare una rete sul territorio con un focus comune. Per farlo, bisogna prima strutturare il livello di progettualità. Più avanti si può creare anche un circuito di microeconomia locale, condivisa e circolare, magari anche con un sistema di credito interno».
Il problema è che in queste piccole comunità rurali sono rimasti solo gli anziani, molti campi sono abbandonati, hanno installato i noccioleti ma non ci sono più la cultura contadina né il circuito economico e produttivo che la supportano. Qui vicino ci sono le Cascate del Perino, ma nessuno si occupa dei sentieri e della gestione del territorio in chiave turistica e di valorizzazione.
Il ricambio generazionale è uno dei problemi principali: il territorio ha grandi potenzialità, se solo si trovasse gente con energia e voglia di fare. I prezzi sono bassissimi, si possono comprare case a 30.000 euro «anche se è difficile trovare immobili in affitto – specifica Katia – perché tutti i proprietari preferiscono vendere». Il primo passo è trovare la formula per entrare nel cuore degli abitanti: «È una comunità abbastanza chiusa, ma nel momento in cui emerge la volontà di mantenere e valorizzare le esperienze e le storie locali è più facile farsi accettare».
La nostra conversazione termina laddove è iniziata, da quel sogno concreto di villaggio diffuso. «Questo è quello che vogliamo creare e ci piacerebbe che diventasse qualcosa di replicabile anche in altri territori. Purtroppo le comunità esistenti hanno pochi collegamenti fra di loro. Se si vuole davvero creare un’alternativa non lo può fare la singola comunità, ci vuole un movimento che abbia la capacità di contaminare altre realtà, non necessariamente comunitarie», concludono Katia, Ermanno, Gabriella e Tania. Ma la loro call è aperta: c’è qualche pioniere pronto a rispondere?
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