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All’indomani della chiusura della seconda sessione dei negoziati ospitati dalla sede UNESCO di Parigi, il cui obiettivo è di raggiungere un accordo sul ciclo di vita della plastica entro il 2024, la strada ancora da percorrere sembra lunga e disseminata di ostacoli. Non c’è negoziato che possa concludersi senza un accordo, seppure parziale. Ed è quello a cui sono giunti i delegati di 175 nazioni, riunitisi a Parigi fino al 2 giugno.
Forse non una conclusione abbastanza soddisfacente per la sfida ambiziosa di ridurre in un orizzonte temporale molto ravvicinato – si parla di arrivarci entro il prossimo anno – l’inquinamento da plastica. Basta solo considerare che la produzione annuale di questo materiale è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni e due terzi di questa è destinata a oggetti concepiti per diventare dei rifiuti pochi minuti dopo – o addirittura secondi – essere stati utilizzati.
Il 5 giugno, in occasione della giornata mondiale dell’Ambiente – dedicata proprio all’inquinamento da plastica –, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, in un tweet ha ricordato la complessità del problema: il tema della plastica riguarda la natura, la salute, la salvaguardia della vita in generale. Di qui lo sforzo delle Nazioni Unite di giungere a quello che nelle parole di Virginijus Sinkevičius, commissario europeo per l’Ambiente, gli oceani e la pesca, dovrebbe essere «un trattato internazionale sulla plastica», che attraverso delle norme mondiali su tutto il ciclo di vita della plastica, metta fine a questo tipo di inquinamento.
CHE FINE FANNO I RIFIUTI EUROPEI?
Attualmente il pianeta affoga nella plastica: si prevede che entro il 2050 la produzione di questo materiale possa addirittura triplicare. Ma quanto davvero sappiamo del ciclo di vita della plastica? Che cos’hanno in comune i rifiuti riciclati in Italia o Danimarca e la città di Adana, in Turchia a 2700 chilometri da Roma? Molto più di quanto potremmo immaginare. Plastica Connection, il documentario di inchiesta realizzato dalla giornalista Teresa Paoli e presentato a Torino in occasione della ventiseiesima edizione del festival CinemAmbiente, è solo un assaggio della complessità geopolitica che si cela dietro questo materiale controverso.
Un viaggio allucinante tra i rifiuti di mezza Europa che ha inizio tra i banchi della grande distribuzione e le nostre tavole, per finire oltre i confini continentali, in Turchia, diventata la principale importatrice di rifiuti venduti dall’Europa da quando la Cina nel 2018 ha deciso di chiudere le proprie frontiere alla plastica europea. Il risultato sono tonnellate di rifiuti triturati e abbandonati in discariche a cielo aperto nel migliore dei casi. Nel peggiore degli scenari invece la plastica viene bruciata illegalmente. Sono centinaia infatti gli incendi accertati – accidentali nelle versioni ufficiali – nelle aziende turche addette al riciclo. Una prassi molto diffusa ed evidentemente una soluzione alquanto pericolosa al problema dello smaltimento dei rifiuti europei di importazione.
L’INGANNO DEL RICICLO
La plastica ha un ciclo di vita infinito. Sopravvive a generazioni, mareggiate ed eventi di qualsiasi sorta. Enzo Suma, nella sua collezione archeoplastica di rifiuti rinvenuti sulle spiagge di tutta Italia, si ostina a riconoscere e datare decine di rifiuti che nonostante il tempo continuano a essere quasi intatti. Inutile ignorare il fatto che il riciclo non riesce a pareggiare la produzione. Di tutta la plastica prodotta una percentuale bassissima viene riciclata – appena il 9% – il resto viene bruciato o disperso nell’ambiente.
In Plastica Connection Teresa Paoli raccoglie, tra le altre, la testimonianza dell’attivista e ingegnere chimico Jan Dell, fondatrice di The Last Beach Cleanup, con cui da anni si batte contro l’inganno del riciclo della plastica e l’epocale “lavaggio del cervello” a cui i consumatori sono stati sottoposti sulla reale possibilità di riciclare la plastica, al pari della carta e del vetro. Dell definisce senza mezzi termini il concetto di economia circolare rapportato alla plastica come la più ingannevole operazione di greenwashing della storia.
Difficile trovare degli argomenti che contraddicano questa posizione, se si pensa che da un punto di vista economico è molto più conveniente produrre plastica vergine che riciclare quella già in circolo. E che gli interessi di mercato delle industrie dei combustibili fossili sono elevatissimi, dal momento che ben il 98% della plastica si produce partendo da petrolio e gas.
Il professor emerito dell’Università di Palermo Francesco Paolo La Mantia ha dedicato tutta la sua vita allo studio dei polimeri. Il viaggio di Plastica Connection approda anche nel suo laboratorio, dove si simulano operazioni di riciclo meccanico di plastica vergine, polimeri misti e plastica già riciclata almeno una volta. I polimeri vergini hanno eccezionali proprietà meccaniche – di resistenza a forze di trazione, ad esempio – a differenza di polimere già riciclati che perdono circa il 10% delle loro proprietà.
Considerato quanto complesso sia il processo di riciclo meccanico dei polimeri – soprattutto quelli misti – il professor La Mantia non ha dubbi a riguardo: va ridotta la quantità di manufatti plastici ed evitate miscellanee di polimeri, perché meno performanti e più complesse da riciclare.
BOZZA ZERO E ACCORDI MAI RAGGIUNTI
Così mentre i cittadini europei sono convinti di riciclare correttamente i propri rifiuti, in un’altra parte del mondo, in Turchia, alla periferia della stessa Europa, l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria sono causati anche da quei rifiuti europei importati. Centinaia di rifugiati siriani vivono accampati e in condizioni malsane in aziende per la raccolta dei rifiuti plastici: la maggior parte di loro sono donne e bambini, ingranaggi inermi di un meccanismo innescato dai nostri consumi e dai nostri scarti.
Perché proprio qui, in Turchia, l’Europa ha deciso di riversare i propri rifiuti? Si chiede in lacrime una madre in un quartiere cresciuto intorno a un impianto di smaltimento della plastica. Lì l’aria è irrespirabile, i casi di tumori infantili in crescita e marchiato a fuoco negli sguardi delle persone, l’inconfondibile stigma dei luoghi che più di altri sono diventati vittima di sacrifico ambientale e umano.
Eppure lo stesso presidente francese, Emmanuel Macron, in occasione del summit da poco tenutosi a Parigi, si è espresso duramente contro l’inquinamento da plastica – definito una «bomba a orologeria» – e il sistema che vede i Paesi più ricchi sbarazzarsi dei rifiuti di plastica esportandoli verso quelli più poveri, che spesso non hanno neppure i mezzi per trattarli.
Per ora purtroppo l’unico risultato raggiunto in extremis dal Comitato intergovernativo di negoziazione, organizzato dal Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep), è un accordo per una “bozza zero” che sarà redatta in meno di sei mesi e centinaia di Paesi ne discuteranno il testo a Nairobi, il prossimo novembre. Ma finché non verranno estromessi dal tavolo dei negoziati gli interessi dell’industria fossile – come era stato richiesto alle Nazioni Unite da più di cento scienziati e gruppi della società civile – sarà molto difficile giungere a un accordo che tuteli realmente la sopravvivenza della vita su questo pianeta.
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