Come è cambiata la risorsa idrica negli ultimi trent’anni nel Bacino del Po
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In trent’anni l’Italia ha perso il 13% delle sue risorse idriche, pari a 19 miliardi di metri cubi di acqua: poco meno del volume dell’intero Lago di Garda e circa due terzi di tutta l’acqua che ogni anno viene prelevata dall’ambiente per sostenere le attività umane nel nostro Paese.
Un calo legato ai cambiamenti climatici che, combinato con l’entità dei prelievi nazionali – pari in media a oltre 30 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno –, restituisce una fotografia dello stress idrico a cui il nostro Paese è sottoposto, calcolato come il rapporto tra prelievi idrici totali e disponibilità di acqua dolce superficiale e sotterranea. È quanto emerge dal confronto dei dati ISTAT–ISPRA che sono riportati in un report che mostra la disponibilità idrica media annua dei periodi 1951-1980 e 1991-2020 elaborati da Greenpeace Italia e che, alla vigilia della Giornata mondiale contro la desertificazione, diffonde una mappa dello stress idrico nazionale.
I RISULTATI DELL’ANALISI ISTAT-ISPRA SULLO STRESS IDRICO
Dall’analisi emerge inoltre che il bacino del Po, l’area che ospita i più grandi fiumi e laghi italiani, è anche quella dove si registra il livello di stress idrico più alto (65,6%), quasi il doppio di quello rilevato nel Sud e nelle Isole, aree storicamente più a rischio siccità e desertificazione.
Un apparente paradosso che si spiega considerando i prelievi idrici destinati alle attività umane: più della metà della quota nazionale è infatti concentrata nel distretto padano, dove circa il 70% dell’acqua serve all’agricoltura. Anche a livello nazionale oltre la metà dell’acqua prelevata è destinata all’agricoltura (56%), per due terzi impiegata proprio nel Bacino del Po, dove si concentra la produzione agricola e zootecnica nazionale, con colture mangimistiche come il mais.
«Certamente lo stress idrico rappresenta un fattore di rischio in più nel favorire la desertificazione in Italia. Il territorio del bacino del Po è sempre stato un grande utilizzatore d’acqua e adesso che la risorsa idrica si riduce e la mancanza di piogge si fa sentire particolarmente in quelle zone, è chiaramente il territorio che più ne subisce gli impatti», dichiara Stefano Tersigni, primo ricercatore ISTAT.
«In particolare, il modello agricolo che si è sviluppato negli ultimi cinquant’anni non è più adeguato alle risorse oggi disponibili, perché ne utilizza troppe ed è poco resiliente ai cambiamenti climatici: bisogna modificare i sistemi d’irrigazione e adottarne di più efficienti, ma anche orientare le scelte verso coltivazioni e modelli agricoli meno idroesigenti».
Secondo le stime più aggiornate, circa un terzo dell’acqua usata per irrigare le nostre coltivazioni serve a produrre mangimi per la filiera zootecnica, che tuttavia coprono appena un quarto del fabbisogno del settore. Tra le coltivazioni che richiedono più acqua, troviamo il riso, il mais e le foraggere; a eccezione del riso, si tratta proprio di colture destinate principalmente agli allevamenti intensivi italiani.
SERVE UNA TRASFORMAZIONE DEL NOSTRO SISTEMA AGRICOLO
«Questi dati mostrano chiaramente che è necessario intervenire sui prelievi destinati all’agricoltura e alla zootecnia intensive: senza una trasformazione del nostro sistema agricolo in chiave agroecologica, nessuna soluzione che ambisca ad aumentare la disponibilità idrica potrà essere sufficiente», dichiara Simona Savini, campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. «La posta in gioco è la nostra sicurezza alimentare: poiché si stima che circa il 20% del territorio italiano rischia di diventare incoltivabile, produrre e consumare meno carne è un prezzo equo da pagare per costruire un sistema agroalimentare in equilibrio con le nostre risorse idriche».
Secondo Greenpeace nel quadro attuale – in particolar modo considerando gli scenari futuri – è necessario pianificare un uso efficiente della risorsa idrica nel settore agricolo, a partire da una riduzione delle produzioni a più elevato consumo d’acqua, come quelle legate al sistema degli allevamenti intensivi.
Per favorire la conservazione e l’infiltrazione di questa preziosa risorsa, Greenpeace ritiene inoltre urgente ripristinare la salute dei suoli, attraverso misure come la messa a riposo dei terreni e l’aumento di aree naturali all’interno delle aree agricole, funzionali non solo alla tutela della biodiversità ma anche alla ritenzione idrica. Si tratta di misure di adattamento essenziali, perché lo stress idrico si aggiunge ai molteplici impatti della crisi climatica sulle nostre economie e società, rischiando di ampliare ulteriormente le disuguaglianze con l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli.
L’AUMENTO DI AREE NATURALI IN PIEMONTE
Per trovare una risposta concreta, sono già in atto in Piemonte progetti che si stanno impegnando a preservare il territorio attraverso la creazione di oasi di biodiversità o progetti di riforestazione su ampia scala. Ne sono esempio l’azienda tech 3Bee che, come vi abbiamo raccontato in questo articolo, ha dato vita a diverse Oasi della Biodiversità in Piemonte, grazie alla messa a dimora di 1600 piante da nettare che contribuiranno a proteggere la biodiversità e a riequilibrare l’ecosistema ambientale.
L’iniziativa fa inoltre parte di un programma più ampio che ha portato alla messa a dimora di oltre 50.000 alberi in 18 regioni e oltre 50 province italiane, contribuendo a creare un corridoio ecologico tra i più ampi in Europa.
Un altro progetto virtuoso, come vi abbiamo illustrato in questo altro articolo, è la Foresta Condivisa del Po Piemontese promossa dagli Enti di gestione delle Aree protette del Po vercellese-alessandrino e delle Aree protette del Po torinese: ha come missione la messa a dimora di migliaia di alberi e arbusti locali e la riqualificazione ambientale di centinaia di ettari di terreni che sono in gran parte pubblici.
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