12 Mag 2023

Elisabetta e il suo “teatro in scatola”, una storia di restanza

Scritto da: Valentina D'Amora

Elisabetta Dini è un'attrice e regista teatrale lunigianese che ha fondato un piccolo teatro in quella che un tempo era una banca, il tutto in un borgo toscano di trecento abitanti. Ci siamo fatti raccontare da lei come sono nati la sua compagnia teatrale al femminile, Officine Tok, e il suo "teatro in scatola".

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Massa-Carrara, Toscana - Siamo in Lunigiana, nel comune di Fivizzano, precisamente a Monzone, un borgo che conta circa trecento abitanti. Qui nel 2017 ha preso corpo una compagnia teatrale tutta al femminile, nata dallo slancio di restanza di una ragazza, Elisabetta Dini, regista e attrice, laureata al DAMS di Firenze.

Mentre lasciava Firenze, Elisabetta, spinta dall’amore per la sua terra d’origine pensava: «Voglio fare quello che amo e per cui ho studiato», sottolinea. E così, lavorando come cameriera e facendo contemporaneamente tanti altri mestieri, ma sempre con il teatro nel cuore, un giorno come tanti partecipa a un provino per una produzione molto importante per il teatro civico di La Spezia. E viene scelta come attrice protagonista.

Da lì cambia tutto: conosce Ines Cattabriga, scenografa multimediale spezzina, che diventa poi, qualche tempo dopo, l’altra faccia di Officine Tok, la loro compagnia teatrale. Non appena iniziano a gravitare l’una intorno all’altra, Elisabetta e Ines si piacciono subito: «In poco tempo siamo diventate amiche e abbiamo realizzato che avevamo entrambe lo stesso desiderio: creare una compagnia tutta nostra». Perché allora non farlo vicino casa? Nasce così il “teatro in scatola” di Monzone, il paese del cuore di Elisabetta, che mi parla di questo progetto con una grinta contagiosa. «Ci vuole coraggio ad andare via, ma ci vuole molto più coraggio a restare», mi dice più volte.

elisabetta dini
Elisabetta Dini al teatro F. Quartieri di Bagnone
Elisabetta, raccontaci: com’è iniziato tutto?

In primis dalla mia voglia di tornare a casa e di investire tempo e non solo in Lunigiana. Ho iniziato in punta di piedi, con l’università del tempo libero. Un giorno per puro caso, in ospedale ho conosciuto Francesca Nobili, assessore alla cultura, che mi ha proposto di tenere un corso di teatro e ho accettato: prima con due allievi che poi sono diventati quattro, dopo dieci. Ora a frequentare ci sono circa venti persone che ogni anno aumentano.

Io e Ines inizialmente lavoravamo in assoluta autonomia, non avevamo nulla. Subito, infatti, abbiamo iniziato a produrre degli spettacoli in spazi non nostri, ma grazie alle residenze, siamo riusciti a portare le nostre produzioni rivolte ai ragazzi nei teatri più importanti della Toscana. Dopodiché abbiamo sentito la necessità di avere qualcosa di nostro.

Ogni volta che riusciamo a conquistare un pezzettino di paese noi siamo felici

Così è nato il “teatro in scatola.

Sì, a Monzone aveva appena chiuso la banca, la Monte dei Paschi di Siena. Era uno spazio piccolo, senza luci, acqua né bagni. Di fatto erano quattro mura umide. Ho chiesto il prezzo ai proprietari e ho deciso di comprarlo, d’altronde volevo investire la mia vita qua. Ora questo posto è in comodato d’uso gratuito alla nostra compagnia teatrale ed è la nostra base, perché crediamo moltissimo in questo territorio.

Cosa contiene adesso questa “scatola”?

Corsi di teatro per adulti e bambini, corsi di cinema per ragazzi. Ma organizziamo anche una stagione teatrale con spettacoli interpretati da attori che arrivano da tutta Italia. E poi lavoriamo anche a festival e portiamo in tournee le nostre produzioni. Il nostro teatro, in realtà, è uno spaccio culturale, con presentazioni di libri, corsi di musica e molto altro. Qui dentro produciamo non solo spettacoli, anche documentari, mi piace precisare che ci stiamo costruite da sole, con le nostre forze e anche con i pianti, perché non è stato facile e non lo è tuttora, ma quando vedi la gente che affolla il nostro piccolo teatro ti si riempie il cuore.

Stavo esattamente pensando a questo: come sta reagendo la popolazione di Monzone a questo vostro progetto?

Si può dire che i monzonesi il teatro lo stiano scoprendo ora, perché prima qui non era mai arrivato. Adesso vediamo che tanta gente ha proprio voglia di questo: in sala ci sono 50 posti e abbiamo sempre pieno, tutti i sabati sera. Eppure sembra incredibile che stia succedendo in un posto come il nostro, dove il teatro era una cosa quasi d’elite, mentre invece sta diventando identitario per questo paese.

elisabetta ines
Ines Cattabriga ed Elisabetta Dini al Caorle Film Festival

Qualche sera fa una signora, dopo uno spettacolo, mi ha detto: «Elisabetta, tu mi hai fatto amare il teatro». Ogni volta che riusciamo a conquistare un pezzettino di paese noi siamo felici, così come ci emozioniamo moltissimo quando vediamo una persona nuova in teatro perché vuol dire che i nostri semi finalmente stanno fiorendo. Il nostro sogno, ora, è quello di avere a Monzone un teatro vero, grande.

Parliamo delle vostre produzioni: qual è quella che ti emoziona di più?

Si intitola “Vicks”, come la pomata che fa tornare a respirare. Si tratta di un monologo in cui viene messo in scena il viaggio di una donna che aspetta in stazione il treno per tornare al suo paese, ma è in ritardo. Mentre si affollano sempre più persone intorno a lei, inizia il suo flusso di coscienza: parla della sua terra natale, dove negli anni è tornata raramente, di sensazioni, di archetipi, di luoghi comuni della Lunigiana. Una girandola di emozioni in cui ridi e piangi.

Chi viene a vederlo si immedesima con la protagonista, perché molti nelle sue parole ritrovano loro stessi, la propria terra. Uno spettacolo che intreccia malinconia e nostalgia, perché il paese quando ce l’hai addosso non te lo togli più, come il profumo di Vicks, che ti rimane per tanto tempo. È, infatti, il senso di appartenenza e allo stesso tempo la preoccupazione per lo spopolamento dei paesi e la perdita delle tradizioni che ci tiene uniti. «Dobbiamo farlo vivere il nostro paese», ci diciamo.

E a proposito di questo, qual è, secondo te, la percezione del confine qui?

Noi nel nostro piccolo ci consideriamo lunigianesi prima di toscani e anche la nostra parlata di toscano ha poco e niente. Quando vado a Firenze, per dire, mi chiedono se sono di Milano [sorride, ndr]. Però l’identità lunigianese c’è ed è molto forte, ci contraddistingue l’attaccamento viscerale alla nostra terra che andrebbe molto più valorizzata: siamo circondati da cose spettacolari ma non sempre ne siamo consapevoli.

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