SenzaSpine, la filiera del fico d’India che sostiene la biodiversità in Calabria
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Reggio Calabria - Il fico d’India cresce in Calabria e un po’ le somiglia. Per questo Cecilia Vigilanti e Germana Chemi lo hanno scelto per la loro impresa, tutta calabrese e tutta al femminile. «È stato definito dalla Fai come il cibo del futuro, perché si adatta bene ai contesti desertici e per le sue proprietà nutrizionali», racconta Germana che è una collaboratrice della prima ora del progetto, una specie di “braccio sinistro” di Cecilia. «Spinoso all’esterno, ma nutriente e dissetante all’interno, diventa l’immagine dell’intera Calabria e di tutte le ricchezze non sfruttate di cui dispone il nostro territorio».
Abbarbicato lungo le strade assolate o affossato nei territori più abbandonati del Sud, per molti non è che una pianta infestante. E invece, come dimostrano le ricerche condotte da SenzaSpine, è un alimento ricchissimo, altro che scarto alimentare! Il fico d’India, che è un cactus proveniente dal Messico, ha grandi pale spinose ma succulente e frutti carnosi ricchi di vitamine e sali minerali. Perciò è ottimo sia per l’alimentazione umana che per quella animale.
Ed è anche un prezioso alleato per l’ambiente. Resiste tanto al caldo quanto al freddo, protegge il terreno dalla desertificazione grazie a un’elevata efficienza idrica ed è capace di assorbire grandi quantità di anidride carbonica: circa cinque tonnellate per ettaro. Attraverso la coltivazione, la lavorazione e la vendita del fico d’India e dei suoi derivati, Senzaspine punta a un modello di sviluppo orientato alla sostenibilità e alla solidarietà.
«Il progetto – continua Germana – nasce con la volontà di agire per la Calabria provando a promuovere un modello di sviluppo improntato da un lato sulla solidarietà sociale, dall’altro sulla sostenibilità economica e ambientale. Proponendosi come un paradigma di impresa alternativo, capace di scoprire le risorse nascoste e meno valorizzate del territorio, come può essere appunto il fico d’India».
Si tratta, come lo chiamano loro stesse, di «un modello di ecologia integrale in economia». Ci si muove sul piano dell’economia circolare e dell’autenticità, del resto l’innata riciclabilità della pianta del fico d’india porta l’impresa a una produzione zero waste, dove tutti gli scarti della produzione vengono utilizzati in ulteriori cicli produttivi.
Dal 2021 i succhi di SenzaSpine sono sul mercato, ma prima l’azienda ha percorso la strada a ostacoli di ogni start up, per loro iniziata nel 2019, «quando Cecilia Vigilanti partecipa a Restartapp, un percorso di incubazione promosso dalla Fondazione Garrone in collaborazione con la fondazione Cariplo. E ottiene un premio in denaro per l’avvio delle attività e una serie di consulenze esterne per un anno. Tra agosto e dicembre 2020 sono prototipate le ricette dei succhi di frutta e a giugno 2021 è costituita una ditta individuale, la forma societaria più semplice e sostenibile per la partenza. Nell’agosto 2021 ha inizio la produzione e da allora siamo sul mercato».
Una avvocata e una filosofa, Cecilia e Germana si sono messe in gioco per creare una “rete di competenze”. «Non ci siamo immolate in maniera improvvisata. Pur non essendo né io né Cecilia imprenditrici con una formazione specifica, ci siamo affidate a gruppi di ricerca ed esperti. È un progetto di imprenditoria pura, pur non avendo i macchinari per fare le cose mettiamo insieme le realtà del territorio e le coordiniamo. Chiaramente parliamo di realtà con le quali c’è un’affinità valoriale».
Una rete di contadini, imprenditori agricoli e distributori locali, professionisti, enti del terzo settore, associazioni, acceleratori di impresa. E soprattutto spin-off universitari. Quello di cui parliamo infatti è un presidio di innovazione nella filiera agroalimentare di qualità, forte della collaborazione con Imadec, lo spin-off dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria per la prototipazione dei prodotti, lo studio delle loro proprietà e la validazione dei processi produttivi.
Paradigma d’impresa alternativo significa anche puntare sulla ricerca. «Abbiamo sperimentato la ricetta del succo insieme a uno spin off tutto al femminile, come noi. Con loro sono state prototipale le ricette dei succhi e anche alcune sperimentazioni sulle farine. Ora stiamo testando la birra e in prospettiva vorremmo provare altre materie prime». Dopo la fase di ricerca, segue quella della produzione, distribuzione e vendita. E anche qui si lavora in rete, portando avanti una filiera dal basso impatto ambientale. Così, i fichi d’India vengono acquistati a Ricadi, presso D bio, e trasformati a Terre di Zoe a San Ferdinando.
Infine, per un’imprenditoria dall’alto impatto sociale, capace di creare occupazione, offrire percorsi di reinserimento lavorativo e formazione, assumono centralità le partnership con gli enti del terzo settore. È questa la parte più complicata, ancora in fieri ma necessaria per individuare i soggetti ai quali indirizzare gli inserimenti lavorativi e la formazione. «Abbiamo l’ambizione di creare opportunità di lavoro legale laddove ce ne sono poche. Anche in questo senso vogliamo essere un modo diverso di fare impresa».
Del resto la mission è coinvolgere chi di “spine” ne ha, per dare un’opportunità e rimettere in gioco chi vive ai margini, come le comunità minorili e i centri di accoglienza. «Diciamo sempre che SenzaSpine è una sfida portata avanti in forma di impresa. Un progetto che vuole cogliere le opportunità presenti in un territorio difficile per rispondere alle problematiche sociali, economiche e ambientali del contesto».
Dai ricercatori ai contadini, passando per il marketing e l’attivismo territoriale, è indubbia la vocazione “di rete” di questa giovane e promettente impresa. «La nostra ambizione – conferma Chemi in conclusione – è diventare un progetto di comunità che metta insieme ricerca, imprenditoria, terzo settore e chiunque voglia partecipare».
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