I ragazzi e le ragazze di oggi si battono per cambiare il mondo?
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Quando ho iniziato a fare laboratori di dialogo filosofico con gli adolescenti affrontando temi di etica e di filosofia politica, mi aspettavo di ritrovare in loro quella voglia di lottare per cambiare le cose e pretendere un mondo migliore che sentivo io alla loro età. E invece molto spesso ho incontrato ragazzi e ragazze profondamente rassegnati e disillusi. Questo mi ha spinto a rendere centrale in molti dei miei laboratori il tema “Cambiare il mondo si può?”.
Fra questi, uno che propongo spesso è quello dal titolo “La più grande ingiustizia”. Inizio il laboratorio consegnando a ognuno un post-it e chiedendo di scriverci in forma anonima quella che secondo loro è la più grande ingiustizia della nostra società. Raccolgo tutti i post-it e li ridistribuisco in modo tale che nessuno abbia tra le mani il proprio. A questo punto, li divido a due a due e chiedo a ogni coppia di discutere le due ingiustizie capitategli e scegliere quella che secondo loro è la più grave. L’attività si ripete, formando dei quartetti, fino ad arrivare alle cinque più grandi ingiustizie. Le ingiustizie scartate vengono comunque lette e discusse, in modo tale da crearne una mappa complessiva.
Di seguito alcuni esempi di ingiustizie emerse nel corso dei laboratori. “Il bullismo”; “i voti a scuola”; “il fatto che molte volte le persone ti giudicano dalle apparenze”; “i professori che ti mettono le etichette”; “dare la colpa a qualcun altro”; “le gerarchie di potere”; “che a noi giovani non si da ascolto”; “l’apatia delle persone”, “razzismo”; “violenza di genere”; “non tutti hanno le stesse opportunità economiche e sociali”; “dare l’ergastolo a qualcuno”; “differenze esorbitanti nei tenori di vita”; “il fatto che i raccomandati abbiano più opportunità di persone “normali””; “l’aumento dei prezzi”; “il fatto che la gente ha pochi soldi anche se se ne potrebbero stampare di più così la gente non muore di fame”.
A partire da queste, la prima parte del laboratorio è finalizzata a comprendere che cos’è che rende qualcosa ingiusto e quindi a riflettere sui concetti stessi di giustizia e ingiustizia. Mi ha sorpreso constatare come, nei loro interventi, questi concetti vengano quasi completamente a collassare con quanto stabilito dalla legge o più in generale con il modo in cui di fatto stanno le cose. In alcuni casi sembra proprio che la domanda, ad esempio, “è giusto condannare all’ergastolo un ragazzo minorenne che ha commesso un determinato crimine?” equivalga a quella “che cosa stabilisce la legge in casi di questo tipo?”.
Alla base di questo c’è forse una qualche forma di relativismo etico, ben espressa in quello che ha scritto sul suo post-it un ragazzo di sedici anni: “L’ingiustizia penso che non esista un po’ come la verità su ciò che è bene e ciò che è male”. A partire da una posizione di questo tipo, evidentemente resta soltanto la legge che ci consente di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è.
Un altro tipo di ragionamento a cui spesso ricorrono le ragazze e i ragazzi è questo: se le cose stanno di fatto in un certo modo allora è giusto/naturale che stiano così. Ad esempio, mi è capitato di sentire: “Di fatto tutti quanti agiscono soltanto per il loro profitto, alla fine è giusto che sia così”. L’argomento in questa forma è evidentemente fallace, ma andando a scavare più a fondo è chiaro come la credenza che ci sta alla base sia un’altra: la conclusione “è giusto che le cose stiano come stanno”, è in realtà espressione di “non vedo come le cose potrebbero cambiare”.
Pur riconoscendo qualcosa come effettivamente ingiusto, il senso di rassegnazione è spesso così radicato, che l’unica alternativa sembra essere quella di accettarlo “perchè di fatto le cose stanno così”. Questo senso di appiattimento sul reale e di disillusione emerge ancora più chiaramente nella seconda parte del laboratorio. Dopo aver analizzato e discusso le ingiustizie emerse, la seconda parte ruota intorno alla domanda: “È possibile costruire una società senza ingiustizie?”. Qui alcune risposte che ho raccolto: “Sì, se sterminiamo tutti. Finché ci saranno esseri umani, ci saranno problemi”.
“Anche le stesse persone che cercano di combatterle finiscono poi per commetterle. Noi stessi facciamo azioni di ingiustizia, non si riesce a eliminare completamente”; “abbiamo provato a cambiare un sacco di cose e non si riesce. Bisogna anche farsi un po’ le ossa e portare pazienza”. “A nessuno frega se il mondo è ingiusto. Le ingiustizie ci sono da sempre, l’essere umano non sarà mai buono”.
Non tutte le risposte sono così nette, alcune ammettono la possibilità che piccoli miglioramenti possano esserci, ma tuttavia il sapore dei loro interventi va quasi sempre in questa direzione. Ho riscontrato una differenza notevole invece quando la discussione ha riguardato alcune ingiustizie che avvertono direttamente sulla loro pelle, in particolare in riferimento all’ambito scolastico. Qui qualcosa cambia, qui la risposta “sono le regole della scuola che dicono che funziona così”, oppure “di fatto le cose stanno così” non li soddisfa più e qualcosa si accende nei loro occhi.
La rassegnazione non scompare affatto ma si accompagna a un senso di rivendicazione e rabbia. Ingiustizie come “gli insegnanti che ti mettono delle etichette”, “che ti trattano come fossi soltanto un numero”, “a cui non frega nulla di te”, “il fatto che la scuola non ti prepara alla vita” innescano qualcosa in loro. Durante un laboratorio su questi temi, un docente presente ha preso la parola per sottolineare come molte di queste ingiustizie affondino in realtà le loro radici in problemi strutturali del sistema scolastico: le classi troppo numerose, la mancanza di spazi adeguati, la necessità di rispettare un programma e così via.
Mi ha colpito la risposta di un ragazzo: «Voi di queste cose non ne parlate mai con noi, sembra sempre che quando le cose non funzionano sia colpa nostra». Allora penso: coinvolgere maggiormente i ragazzi e le ragazze nelle questioni scolastiche, far sentire che la loro voce ha un peso, potrebbe forse essere un buon punto di partenza per contrastare questo senso di impotenza e rassegnazione rispetto alla possibilità di cambiare il mondo? Mi rispondo che probabilmente sì, potrebbe esserlo. Quello che resta problematico, come spesso accade, è capire poi come farlo nel concreto.
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