“Pensare come un bacino fluviale”. Giuseppe Moretti e il bioregionalismo
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Parafrasando Aldo Leopold e il suo Pensare come una montagna, oggi è proprio il caso di dire che c’è la necessità di “pensare come un bacino fluviale”. L’esortazione di Leopold è dei primi anni ’40 del secolo scorso ed è un invito a vedere la montagna non semplicemente come un ammasso di risorse forestali, minerarie, idriche, paesaggistiche, di flora e fauna o di tempo libero, ma come un valore in sé da preservare e usare con cautela, rispettandone le dinamiche, le connessioni e lo spirito. La stessa cosa potremmo dire per foreste, oceani oppure i bacini fluviali, saliti agli onori della cronaca durante la rovente estate 2022, ma solo perché l’acqua stentava a scorrere dai rubinetti e le colture agricole bruciavano sotto il sole e l’acqua mancava per ristorarle.
Questo del rapporto conflittuale tra uomo e natura è una questione annosa che ciclicamente si presenta ai quattro angoli del pianeta [ultima volta in ordine di tempo pochi giorni fa in occasione dell’alluvione in Emilia Romagna, ndr]. Solo che, appena l’emergenza si allenta, tutto torna come prima, se non peggio, perché il “progresso non si deve fermare!”. Noi bioregionalisti abbiamo letto quello che diceva Aldo Leopold e ne abbiamo fatto tesoro nel difficile lavoro per metterla in pratica.
Freeman House, un bioregionalista della prima ora, nell’atto di far nascere il Mattole Restoration Council – un gruppo che nella California settentrionale si occupava e si occupa tutt’ora del ripristino del fiume Mattole, onde recuperare la presenza del salmone in quelle acque – disse: “Cosa accadrebbe se vedessimo noi stessi come abitanti di un luogo naturalmente definito dal pianeta piuttosto che da gruppi di interesse competitivi isolati l’uno dall’altro da confini di proprietà? Diciamo un luogo naturalmente definito come può esserlo uno spartiacque”.
“È stato il salmone a insegnarci che viviamo in un bacino fluviale e che il concetto non è solo una astrazione”, continua il gruppo americano. “Ognuno di noi vive in uno di essi e chiunque, sia che abiti in città o campagna, ha la possibilità di vedere ogni giorno i lineamenti di un crinale, oppure di un corso d’acqua. Chiunque può entrare in relazione con una piccola parte di esso. Gruppi organizzati potrebbero vedere le loro attività come parti funzionanti del bacino idrico di loro competenza. Si potrebbe costruire una comunità sufficientemente sensibile da comprendere e adattarsi alle opportunità e ai vincoli di un insieme più grande, nel nostro caso uno spartiacque fluviale di trecento miglia quadrate” (Totem Salmon, Bacon Press, 1999).
Prima di lui, nel 1977 Peter Berg e il gruppo di Planet Drum si attivarono contro il progetto dello Stato della California di deviare a centinaia di chilometri di distanza parte delle acque del bacino idrografico del fiume Sacramento, minacciando la stabilità idrica dell’intera Baia di San Francisco per soddisfare gli interessi dell’agribusiness dell’arido sud della California e della ideologicamente mai sazia megalopoli di Los Angeles. Scrive Peter: “Il bacino fluviale è un insieme omogeneo, definisce ciò che sta a monte a quello che sta a valle del fiume, è lo spazio in cui ci troviamo a vivere”.
“Il bacino fluviale è l’universo idrico della nostra esperienza di vita terrena”, prosegue Berg. “Quando percorri un bacino fluviale egli ti insegna, ti guida. Quando interrompi un bacino fluviale con strade, dighe e fossati, egli sanguina, si erode, inonda. Il bacino fluviale definisce il luogo, il vento, il cibo, i percorsi, le cerimonie e i canti. Entriamo nella vita del bacino fluviale che fluisce in questo luogo specifico, celebriamo il ritorno del salmone e dell’aringa, il sogno delle acque che si fondano, facciamo crescere il bacino fluviale con la nostra presenza, fino a che non ne diventiamo un tutt’uno. (Living Here, Frisco Bay Mussel Group 1977)
E il poeta Premio Pulitzer Gary Snyder allarga la visuale e chiosa: “Consapevolezza fluviale e bioregionalismo non sono solo ambientalismo, non sono solo un intendimento verso la soluzione dei problemi sociali ed economici, ma un passo verso un chiarimento tra natura e società, attraverso la pratica di una profonda cittadinanza, sia nel mondo naturale che in quello sociale. Se la terra diventerà il nostro terreno comune allora potremo di nuovo iniziare a parlarci l’un l’altro, umani e non umani. (A Place in Space/Coming Into the Watershed, Counterpoint 1995)
E in Italia? C’è oggi in Italia una qualche parvenza di consapevolezza fluviale del tipo espressa da Aldo Leopold o dai bioregionalisti? Sì c’è – o meglio, c’è stata – e pure ironicamente ai massimi livelli. Nel 1989 infatti il Parlamento italiano varò la legge 183 per la difesa del suolo e delle acque. Tra i maggiori artefici di quella legge c’era Giorgio Nebbia, professore emerito in Merceologia all’Università di Bari e tra i maggiori ecologisti italiani del Novecento, purtroppo ora passato a miglior vita. Non è dato sapere se Nebbia avesse letto Aldo Leopold o conosciuto l’attivismo dei bioregionalisti, sta di fatto che gli intendimenti di quella legge, seppur utilitaristici, si avvicinavano molto ad una visione d’insieme che contempla le esigenze umane e al tempo stesso quelle delle bioregioni.
Ma cosa diceva in sintesi quella legge? Secondo le parole dello stesso Nebbia, “essa riconosce il bacino idrografico come l’unica vera unità per la localizzazione degli insediamenti umani e produttivi, per la difesa del suolo contro l’erosione, per l’approvvigionamento dell’acqua nelle città, nei campi, nelle fabbriche, per la lotta all’inquinamento. Quando dei pezzi di un bacino idrografico si trovano nel territorio di differenti regioni, queste devono operare insieme in solidarietà, attraverso una autorità di bacino, che non sia un’altra fonte di poltrone e clientele, ma un grande momento di politica ambientale, la sede in cui è possibile frenare l’erosione del suolo e assicurare acqua ai territori compresi in ciascun bacino e alle regioni vicine”.
“Ciascuna autorità di bacino avrebbe dovuto condurre una indagine sulle condizioni del bacino idrografico (quante case, quante fabbriche, quante mucche, quanti campi etc…) e predisporre un piano delle acque e della difesa del suolo” (tratto da G. Nebbia “bacini idrografici: cultura e solidarietà”, conclude Nebbia nella sua disamina.
Purtroppo quella legge non fu mai resa attuativa e in seguito fu del tutto cambiata. Si trattava di un testo lungimirante all’epoca, che però ha dovuto soccombere agli interessi particolari di cui la società moderna è intrisa. Ma l’idea era buona anche perché Nebbia era ben consapevole che non sarebbe bastata una legge per cambiare le cose, ma serviva accompagnarla sviluppando una cultura di bacino idrografico. A cominciare dalle scuole: i ragazzi sono posti di fronte a un’Italia divisa in regioni amministrative, occorre adesso procedere lentamente alla diffusione di una geografia dell’Italia che aiuti gli studenti – ma anche i cittadini in genere – a riconoscere, oltri i confini amministrativi, anche quelli fisici e geografici dei vari bacini idrografici.
Il valore educativo di tutto questo è molto grande: la soluzione del “problema acqua” in Italia dipende dalla possibilità che i cittadini di ciascun bacino idrografico – si badi bene, dell’intero bacino idrografico, non solo del fiume principale – sviluppino un senso di appartenenza e di solidarietà con gli altri abitanti dello stesso bacino idrografico. Così, per fare un esempio, gli abitanti delle regioni Toscana, Umbria e Lazio dovrebbero sì considerarsi toscani, umbri o laziali, ma è importante anche che si riconoscano appartenenti al “popolo del Tevere”, sapendo che quanto viene fatto in un punto del bacino influenza la vita e anche l’economia di tutti gli altri abitanti dello stesso bacino, poco conta se “appartengono” amministrativamente ad un’altra regione.
Lo stesso per tutti gli altri bacini divisi fra regioni diverse: quello del Po, il più interregionale di tutti, come quello del Magra-Vara, quello del Volturno, che si estende fra Molise e Campania, quello dell’Ofanto, che si estende fra Campagna, Basilicata e Puglia e così via. Solidarietà, che non esclude la possibilità di interscambio di acqua fra bacini più ricchi e bacini più poveri di acqua.
La legge, come s’è detto, non è mai stata attuata, anche perché non risulta che il mondo ambientalista in generale e quello dei Verdi in particolare, abbiano fatto barricata per difenderla e sostenerla. Eppure andava fatto, quella era una legge che avrebbe, nei tempi lunghi, dato lustro e credito a tutto il variegato movimento ambientalista/ecologista italiano. Una sua applicazione avrebbe limitato di molto le emergenze che si sono succedute in tutti questi anni.
Seguendo quella legge, che prevedeva una considerazione minuziosa della distribuzione e dell’impatto delle tante strutture necessarie alla vita della società umana, forse sarebbero stati regolamentati meglio gli usi e si sarebbe posto freno agli abusi idrici, che oggi si scontano con una siccità e carenza d’acqua epocale, soprattutto nel bacino idrico più esteso d’Italia, il Po. Quella era una legge intelligente, perché facendo leva sugli aspetti utilitaristici, introduceva anche, piano piano, una coscienza ecologica d’insieme che nel tempo non avrebbe potuto che crescere.
Sì, “pensare come pensa un bacino fluviale” non è da tutti, ficcati come siamo nel dio io ideologico, scientifico, culturale, economico… ma anche in molti casi, ambientalista. Ecco forse perché una legge lungimirante come quella di Nebbia fu posta in fretta e furia nel dimenticatoio. Ecco perché quando Peter Berg venne in Italia nel 1994, per presentare l’idea bioregionale – che poi in definitiva è simile al pensiero di Nebbia quando questo si faceva libero e visionario e diceva che “i confini dei bacini idrografici sono gli unici che contano, perché disegnati dalla natura” – il mondo ambientalista lo definì “un provocatore e l’idea bioregionale un’idea senza prospettiva storica e possibilità di alleanze”. (La Nuova Ecologia” gennaio 1995)
“Pensare come un bacino fluviale” è una metafora per andare oltre l’individualismo miope e arrogante che ha così vistosamente permeato e modellato la società umana almeno negli ultimi due/tre secoli. Pensare come un bacino fluviale significa pensare in termini di relazioni, comunità e interdipendenza, non solo tra noi umani ma anche con gli elementi della natura che ci circonda. Dopotutto, questa per noi non è una cosa nuova, per più di nove decimi della nostra storia come specie su questo pianeta abbiamo vissuto osservando, copiando e soprattutto cooperando con i modi dell’acqua, i tempi della montagna, il flusso delle maree, il ritmo delle migrazioni, i cicli atmosferici e lo scambio di energia.
Ricostruire il senso di comunità attorno a un insieme più grande – bacino fluviale o bioregione che sia –, così come immaginato da Freeman House, Peter Berg, Gary Snyder e Giorgio Nebbia nella metà del secolo scorso, partiva proprio dalla convinzione che non c’è soluzione ai problemi ecologici e sociali creati dall’uomo bypassando le leggi della natura. Ora questo è sempre più evidente e non più negoziabile. Compito delle giovani generazioni e degli uomini e donne di buona volontà raccogliere questo lascito e rimodellare la società e la comunità con in mente i modi e le direzioni della natura. Umani e non-umani insieme, di nuovo.
Articolo tratto da Lato Selvatico n°61/Autunno 2022
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