Preservare la saggezza antica: medicina popolare e medicina ufficiale nelle terre dell’Appennino
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Pavia, Lombardia - Un tempo nelle aree rurali la tutela della salute passava attraverso pratiche di medicina tradizionale e rimedi non convenzionali. Era il caso, ad esempio, di contadini o montanari che vivevano in frazioni distanti ore di cammino dai maggiori centri, per i quali non era agevole disporre dell’intervento del medico. Così ricorrevano frequentemente alla farmacopea popolare, ovvero quell’insieme di pratiche e credenze legate a un “mondo magico” .
Ma qual è stato e qual è tuttora il rapporto tra la medicina ufficiale e la medicina popolare in questi territori? Ce ne parlano gli autori e membri dell’associazione Barabàn Aurelio Citelli, Giuliano Grasso e Alberto Rovelli, che per la prima volta hanno documentato in modo organico quella “cultura dei segni” e quelle pratiche ancora poco indagate legate alla tradizione di un’area appenninica, quella delle Quattro province.
Il loro è un viaggio attraverso una moltitudine di testimonianze: storie di donne depositarie di pratiche trasmesse di generazione in generazione, guaritori capaci di attuare rituali di tipo magico-religioso, ma anche medici, pazienti o farmacisti. Ne parlano nel libro Int U Segnu, che raccoglie un prezioso e approfondito panorama di esperienze che documentano la cultura di questo territorio.
Da dove nasce la necessità di avviare una ricerca sull’universo legato alla medicina popolare e le credenze legate al mondo magico?
Giuliano Grasso: Tra i vari temi che abbiamo approfondito nel corso delle nostre ricerche nelle Quattro Province, e in particolare dell’Oltrepò pavese, vi è quello delle pratiche di medicina popolare ancora in uso. Ci sembrava importante affrontare questo tema perché già Alessandro Maragliano, nel suo libro Tradizioni popolari vogheresi, una voluminosa raccolta che descrive vari aspetti del folklore locale a fine ‘800, aveva mostrato come queste pratiche fossero particolarmente presenti nella zona a quel tempo.
Da qui l’idea di verificare l’eventuale permanenza di questo “mondo magico”, che nemmeno noi pensavamo di ritrovare ancora così diffuso. Noi avevamo già maturato una buona conoscenza dei guaritori di campagna all’inizio degli anni ’90 quando effettuammo una ricerca analoga nelle limitrofe valli del piacentino e i frutti di quell’esperienza ci sono serviti per effettuare un lavoro scientificamente valido che ha toccato tutte le aree collinare e montane dell’Oltrepo pavese.
In che modo e perché queste pratiche di etnomedicina si sono radicate nel territorio delle Quattro Province e come hanno costituito e costituiscono tutt’ora una delle forme organizzative per la difesa della salute sul territorio?
Giuliano Grasso: È bene chiarire che queste pratiche non sono certo esclusive della cultura locale ma hanno origini antiche e si ritrovano in diverse regioni italiane così come in molte altre aree rurali del mondo. In molte filosofie è presente il concetto che ogni tipo di pianta rechi in sé i segni della malattia che è in grado di contrastare. Il principio che le cose portino in sé un segno che rivela le loro potenzialità è stato delineato sin dai tempi di Ippocrate e Paracelso ed è ancora una delle idee alla base dell’odierna medicina omeopatica.
Dall’alto Medioevo poi, gli ordini mendicanti cominciano a girare le campagne diffondendo un sapere composto da elementi cristiani e pratiche pagane e si afferma il culto popolare dei Santi Taumaturghi nel quale troviamo quell’intreccio tra religione e finalità terapeutica che ancora oggi in molti casi caratterizza la medicina del “segno”. Fino alla fine dell’800 la scienza medica non è stata in grado di produrre rimedi, accessibili a tutti gli strati della popolazione, in grado di alleviare molte delle più comuni malattie.
Uno dei motivi era che nella società preindustriale i medici risiedevano per la maggior parte nelle città, lasciando che nelle campagne vi fosse campo libero per una variegata offerta di rimedi non convenzionali per la tutela della salute. Spesso coloro che vivevano in frazioni distanti ore di cammino dai maggiori centri, per i quali non era agevole disporre dell’intervento del medico condotto, ricorrevano quindi frequentemente alla farmacopea popolare, sia quella casalinga basata sull’uso di erbe sia, per determinate malattie, ai rituali di tipo magico-religioso attuati dai guaritori.
Qual è oggi il rapporto tra la medicina ufficiale e le discipline di guarigione “altre” sul territorio?
Alberto Rovelli: Non sono emersi conflitti tra la medicina ufficiale e il mondo delle pratiche oggetto di questa ricerca. I terapeuti popolari sono generalmente coscienti dei propri limiti e se si ritengono incapaci di curare certe patologie, consigliano al malato di rivolgersi ai presidi della medicina ufficiale.
Medici e farmacisti hanno mostrato atteggiamenti di comprensione del fenomeno e comunque di non ostilità: non pochi sono i commenti positivi sui guaritori popolari manifestati da operatori della medicina ufficiale, alcuni dei quali peraltro – per alcune patologie, in primis il fuoco di sant’Antonio – suggeriscono ai pazienti di ricorrere, oltre alle normali terapie, anche ai medgon. Oggi i pazienti non disdegnano di rivolgersi a entrambi i canali di cura, utilizzando di volta in volta quello più efficace o l’uno e l’altro insieme, in una sorta di sistema integrato medicina ufficiale-medicina popolare.
Certo, dato che i guaritori popolari intervengono sul corpo del paziente, le pratiche possono essere dannose per la salute e ciò pone interrogativi sulla loro legalità e sulla stessa legittimità del loro esercizio da parte di persone non qualificate e senza alcuna autorizzazione.
In ogni caso, i medici intervistati suggeriscono che la medicina popolare possa rispondere a una necessità da parte dei pazienti di un contatto umano, di avere cure e attenzione, al bisogno di trovare una risposta ai propri disagi psicologici, di una possibilità di affidarsi a chi gli “dà la cura” in modo più profondo rispetto a quello che normalmente fanno oggi i medici della medicina ufficiale. La presenza dei guaritori popolari – sembrano suggerire i medici – potrebbe portare i loro colleghi a interrogarsi sul loro rapporto umano con i pazienti che si affidano a loro.
Un approccio della medicina ufficiale verso queste pratiche è quello di considerarle in relazione al loro effetto placebo: si può ipotizzare che il guaritore, infondendo fiducia nel paziente, possa favorire – e solo favorire, non guarire – il miglioramento delle capacità di difesa nel corpo malato: “La fiducia che il problema potrà essere risolto favorisce lo stato di miglioramento delle capacità di difesa”.
L’indagine che abbiamo avviato sul territorio delle Quattro Province si impegna anche ad approfondire il tema del “confine”: quali sono i suoi punti di forza e debolezza in un’area suddivisa da confini amministrativi ma allo stesso tempo geograficamente e culturalmente omogenea. Dal vostro punto di vista, come percepite il tema del confine sul territorio?
Aurelio Citelli: Queste valli hanno da sempre una forte identità culturale, un’autonomia espressiva, propri codici di riferimento; sono poco inclini a essere asservite all’uno o all’altro o ad arrestare il proprio passo davanti a un crinale o a un torrente, tanto meno a un confine amministrativo che – va ricordato – è spesso cambiato nel corso dei secoli. Terre di conquista, queste valli sono state sottoposte un tempo al Regno di Piemonte e un tempo alla Repubblica di Genova, un tempo legate a Bobbio e un tempo ai Savoia, un tempo amministrate dalla Lombardia e al contempo appartenenti alla Diocesi piemontese di Tortona.
Come tutte le terre tra mare e pianura, sono però soprattutto terre di passaggio, di mulattiere, di scambi commerciali tra il porto di Genova e le grandi città del Nord Europa, di attraversamenti dai Ducati alla pianura irrugua, di scambi culturali. Gli abitanti di qui non hanno mai considerato i confini amministrativi come frontiere invalicabili: si sono mescolati in un meticciato appenninico, hanno intrecciato rapporti familiari, usanze, cultura, lingua, musiche e canti. Ecco: la ricerca etnografica – così come quella storica ed etnomusicale – ha seguito gli stessi percorsi, gli stessi sentieri, senza fermarsi davanti a un confine regionale o di provincia.
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