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Gianluca Gotto, giovane e talentuoso scrittore italiano, qualche anno fa si ritrova a vivere una crisi personale a causa di un evento imprevedibile che compromette temporaneamente la sua salute e fa crollare una delle sue certezze. Crede di essere forte e felice perché è riuscito a conquistare tutto ciò che desidera, ma l’incontro con un monaco buddista e i suoi insegnamenti lo rendono consapevole di un altro punto di vista, quello buddista. È questa la storia che Gianluca racconta presentando il suo libro Profondo come il mare, leggero come il cielo.
In un primo articolo abbiamo raccontato il suo percorso di avvicinamento al buddismo, mentre adesso affrontiamo un tema centrale del suo pensieri: «Il buddismo è molto semplice – dice Gianluca Gotto – ed è basato su quattro verità. La prima è che la sofferenza esiste. È la dukkha. Noi soffriamo costantemente perché non vogliamo soffrire mai. Non siamo capaci di capire la nostra sofferenza, la evitiamo. Più scappiamo dalla nostra sofferenza e più lei ci insegue. Noi dobbiamo fermarci e accettare che la sofferenza esiste, che noi stiamo male e va benissimo così».
La seconda grande verità è che la sofferenza ha una causa. Ci sono tante cause per cui noi soffriamo, ma il Buddha dice che alla base di tutto c’è il desiderio. «Noi desideriamo troppo le cose e cioè che la vita sia diversa da quella che è», osserva Gianluca. «Anche quando tutto va benissimo, noi vorremmo che ci fosse qualcosa di diverso rispetto a quella situazione. Se noi invece imparassimo ad accettare la vita per quello che è invece di voler insistere per ciò che vorremmo che fosse, la nostra sofferenza sparirebbe».
La terza grande verità è che la sofferenza può essere superata: «È così e chiunque può farlo andando a ricercare qualcosa non al di fuori di noi, ma dentro di noi. Non è cambiando lavoro, città, amici che la nostra sofferenza esistenziale svanisce. Queste cose sono importanti e vanno fatte, ma parallelamente bisogna fare un lavoro diverso: invece di aggiungere qualcosa bisogna togliere.
Il Buddismo è un processo di minimalismo, bisogna eliminare strati e strati di rabbia, sofferenza, attaccamento che abbiamo accumulato nella nostra vita. Tutta la tua sofferenza e la tua felicità sono dentro di te. Tutte le tue domande e le tue risposte sono già dentro di te. Tutto quello che tu puoi desiderare di non avere più è già dentro di te perché sei tu, attraverso i tuoi pensieri a creare la realtà. È la tua mente a creare la realtà. Se tu lavori su te stesso riuscirai a cambiare percezione della vita».
La quarta e ultima verità del Buddha è che ognuno di noi può essere felice, anche le persone nelle situazioni più disperate possono provare una profonda felicità. «Come si fa a capire questo?», chiede Gotto. «Bisogna cambiare la nostra prospettiva sulla felicità. Noi occidentali pensiamo che saremo felici solo quando avremo ciò che non abbiamo. Noi diciamo “io sono felice di qualcosa”. Nel buddismo invece la felicità è qualcosa più simile alla serenità: io non posso dire “sono sereno di….”. La serenità è uno stato d’animo che non dipende da qualcosa che è attorno a noi. È una cosa nostra».
Fatta questa distinzione il Buddha disse: “Perfetto, scendiamo nella pratica. Come si fa a conquistare la serenità interiore che ho trovato io?”. Bisogna monitorare costantemente otto aspetti della nostra vita per essere sereni. Gianluca li passa in rassegna: «La retta visione. Bisogna avere una visione corretta della vita. Il retto pensiero.
Bisogna avere un pensiero che sia innanzitutto calmo. Nel Buddismo non è importante essere felici. Nel buddismo è importante essere calmi perché quando noi siamo calmi, siamo anche sereni. Quando non siamo calmi non siamo né sereni né felici. O se siamo felici magari è euforia più simile a una fiammata che inevitabilmente dura poco e può anche bruciarsi».
Il terzo aspetto è la retta parola: «Noi dobbiamo curare il modo in cui parliamo con gli altri e nello specifico la nostra parola deve essere accurata, precisa, onesta, ma soprattutto gentile anche nei confronti di noi stessi. Poi c’è la retta azione, il karma: noi siamo quello che facciamo. Il nostro stato d’animo è determinato da quello che facciamo noi e non da quello che fanno gli altri. Il monaco buddista mi disse “quello che fanno gli altri è al di fuori del tuo controllo. Lo decidono loro. Quello è il loro karma e non deve preoccuparti. Tu pratica il tuo karma e il modo in cui reagisci a quello che gli altri ti fanno”».
La retta azione infatti è riuscire sempre ad agire con amore verso noi stessi, verso gli altri e verso ogni forma di vita e la vita in genere. «Poi il Buddha scende anche nella scuola più pratica della vita e cioè il retto sostentamento. Lui dice “noi per poter essere felici non possiamo avere un lavoro che causa sofferenza agli altri e nemmeno a noi stessi”. Se ci facciamo del male per il lavoro non potremmo mai essere sereni. Non ci sono scorciatoie. Poi c’è il retto sforzo. Il Buddha dice di sforzarci nel modo giusto cioè nell’ottica di amare di più la vita, noi stessi, di volerci bene, di voler bene agli altri, di apportare nell’universo qualcosa di positivo.
Il settimo aspetto è la retta presenza mentale: non essere schiavi del passato e non essere in ansia per il futuro. «Il Buddha diceva che chi vive nel momento presente è sereno. Chi invece ha sempre la mente nel passato o nel futuro non vive nella vita, vive nella sua testa e se la sua testa è fuori controllo la sua vita è un inferno. L’ultimo punto è la retta consapevolezza o concentrazione che sarebbe la pratica meditativa. Noi non siamo abituati a meditare, non fa parte della nostra cultura. Cosa vuol dire meditare? È essere presenti a sé stessi. Noi in questa vita siamo presenti a molte cose: partner, capo, genitori, figli, cane. Ma non a noi stessi».
Quando facciamo come il Buddha, cioè diventiamo presenti nei confronti di noi stessi, ci assumiamo la responsabilità di guardarci dentro, di ascoltarci, di capire ciò che non va e di imparare a volerci bene. Quando succede questo? Questo non succede mai. «Nel buddismo tutto è ricondotto ad adesso. È importante fermarsi, che significa fermare il nostro corpo in un punto, ma soprattutto la nostra mente. Quando noi accettiamo questo, smettiamo di vagare verso cose che non esistono. Siamo costretti ad affrontare la verità. Quale? C’è un essere umano che siamo noi, che ha bisogno di aiuto, di essere ascoltato. La pratica meditativa è questo: ascoltare noi stessi».
«Quando iniziamo a fare questo succede qualcosa di meraviglioso ed è ciò che io ho provato sulla mia pelle in quel periodo», racconta Gianluca. «Ci rendiamo conto di avere tanti traumi nella nostra vita. Ci rendiamo conto di tutte le nostre imperfezioni, quelle che non vorremmo mai ammettere a nessuno ma, guardando in faccia la nostra sofferenza, comprendiamo due cose. Comprendiamo che la sofferenza è molto più piccola di quello che crediamo e con la meditazione la illuminiamo. È gestibile. E poi comprendiamo che se vogliamo smettere di soffrire, se vogliamo essere felici, non dobbiamo partire dalla felicità ma dal nostro fango interiore.
Gotto spiega questo secondo aspetto con le parole del monaco: «Un giorno mi portò nella parte ancora più interna del tempio, dove c’è una palude. C’erano i fiori di loto e mi disse di guardare quel fiore che è il simbolo massimo del buddismo perché secondo il Buddha il fiore di loto rappresenta la natura umana. È bellissimo, forte. È l’emblema della bellezza, della perfezione e ognuno di noi può essere questo perché dentro di sé ha il seme della buddità».
«Ognuno di noi può essere un Buddha, anche tu che pensi di non valere niente, anche tu che ti senti completamente incapace di controllare te stesso, che hai commesso mille errori», conclude l’autore. «Se tu prendi il fiore di loto e lo metti nell’acqua più limpida che ci sia dopo due settimane muore. Dobbiamo andare a cercare la nostra sofferenza, guardarci dentro e avere il coraggio di piantare qualcosa di buono lì dentro perché è lì che la sofferenza diventerà un terreno fertile in cui germoglierà la nostra felicità».
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