Fusione di Comuni: nel crotonese un’opportunità per rilanciare il territorio
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Crotone - Piccolo è bello. Ma grande è ancora meglio. Almeno quando in gioco ci sono le fortune di un territorio e dei suoi abitanti. A Crotone, città calabrese di antichi fasti magnogreci, si discute in questi giorni di accorpare sei Comuni: oltre al capoluogo di provincia, le municipalità di Isola Capo Rizzuto, Cutro, Scandale, Rocca di Neto e Strongoli. L’idea è di rilanciare, attraverso questa fusione di Comuni, una vasta area territoriale che dallo Ionio scollina verso quello che un tempo era parte del Marchesato crotonese, da troppi anni relegata ai margini delle dinamiche economiche nazionali e finanche regionali.
C’è un gap evidente soprattutto sul piano infrastrutturale e commerciale, nonostante la presenza di uno scalo portuale, aeroportuale e ferroviario la cui valorizzazione potrebbe innescare processi virtuosi di sviluppo, non solo economico. A perorare la causa è Territori in Rete, un comitato di cittadini di varia estrazione a cui aderisce anche la Caritas locale, a testimonianza dell’interesse che tale iniziativa riveste per le opportunità di crescita sociale ed economica delle comunità coinvolte.
Il concetto della crescita è armoniosamente racchiuso in un claim che il comitato ha coniato per l’occasione: Progetto Zero-Sei. Un riferimento numerico di suggestione “pitagorica”, per non smarrire il proprio Dna culturale – a Crotone il filosofo di Samo fondò la sua scuola –, che è però anche espressione di più pregni significati allorché allude al recupero di una condizione di svantaggio attraverso una proposta di coesione che superi le frammentazioni e gli steccati ideologici dei campanili.
Proprio sulle prospettive di crescita si appuntano le analisi e i dati dei gruppi di lavoro costituiti all’interno del Comitato con l’obiettivo di fornire al decisore politico-amministrativo – la Regione – il più ampio ventaglio di opportunità che verrebbero a crearsi con la fusione dei sei Comuni. «Intanto un’estensione geografica che farebbe della nuova entità comunale la seconda città italiana dopo Roma», afferma entusiasta Emilio De Masi, medico e coordinatore del Comitato.
«A differenza della Capitale – prosegue De Masi – questa entità avrebbe una bassa densità demografica e perciò uno scarso impatto antropico, aspetto non trascurabile se si considerano le direttrici lungo le quali si muove l’idea di sviluppo del territorio, ispirata alla salvaguardia dei valori archeologici, storici, culturali delle comunità e delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali». Un cluster nel quale opererebbero sinergicamente i moderni propulsori di sviluppo: agricoltura sostenibile, turismo lento e green, produzione di energia pulita, cura del paesaggio.
La valorizzazione delle risorse naturali è il focus di tutto il progetto e intercetta le politiche ambientali europee, con effetti concreti sulla possibilità di avviare ed espandere sistemi produttivi ecocompatibili. «La nuova città si snoderebbe lungo un tratto costiero di circa 32 chilometri – continua De Masi – abbracciando due siti di enorme interesse naturalistico: la Riserva marina di Isola Capo Rizzuto e l’Area protetta del fiume Neto, uno straordinario habitat di biodiversità. Ciò, oltre a costituire un forte attrattore turistico, consentirebbe di coniugare aspetti ambientali e paesistici naturali, gli elementi trainanti delle strategie di sviluppo economico indicate dalla Ue per le unità territoriali».
In Calabria le iniziative di fusione comunale non sono una novità. Già nel 1968 i Comuni di S. Eufemia Lamezia, Nicastro e Sambiase, sul versante tirrenico, hanno dato luogo al Comune unico di Lamezia terme. Più recentemente, nel 2017, cinque Comuni montani dell’Altopiano della Sila – Spezzano piccolo, Pedace, Serra Pedace, Casole Bruzio e Trenta – si sono fusi nella nuova municipalità di Casali del Manco. L’anno successivo è stato il turno di Corigliano calabro e Rossano, sulla costa ionica cosentina. E oggi anche Cosenza ha avviato le procedure per chiedere l’unificazione del capoluogo bruzio con i comuni contigui di Rende e Castrolibero, dove la crescente rilevanza del polo universitario è ormai diventato un driver identitario di sviluppo.
Accorpamenti spesso dettati da esigenze organizzative e di ottimizzazione, anche economica, dei servizi pubblici, ma anche per aumentare il peso specifico in ambito regionale e nazionale. L’annunciata “autonomia differenziata” in questo senso gioca un ruolo cruciale nelle logiche amministrative regionali, strettamente collegate a quelle elettorali. E l’area del Crotonese, esaurita già da vent’anni la fase industriale e politicamente marginalizzata anche a seguito della rimodulazione dei collegi elettorali che di fatto la escludono da qualsiasi rappresentanza istituzionale, gravita ormai da tempo, salvo qualche sparuta eccezione, intorno a una grama economia terziaria e pubblica che non produce effetti collaterali.
«Quello del peso specifico è forse l’aspetto più urgente – conferma De Masi –; non c’è dubbio che nella prospettiva del nuovo regionalismo differenziato l’intera area crotonese sarebbe oltremodo penalizzata. E dunque, in questo senso, la fusione appare non solo auspicabile ma addirittura necessaria. Non nascondo però anche la difficoltà del percorso, legata più che altro alla difesa delle singole identità, anche se negli incontri finora avuti con i sei sindaci abbiamo registrato un’assoluta apertura al progetto. Ora toccherà vedere cosa ne pensano i cittadini, poiché l’iter di accorpamento prevede l’indizione di un referendum tra le comunità interessate».
Rispetto ad altre aggregazioni, quella dei sei Comuni della provincia crotonese avrebbe anche un’altra peculiarità, dovuta alla geografia degli insediamenti urbani, non proprio contigui tra loro. Questo fattore, lungi dal rappresentare un handicap, potrebbe favorire la nascita di una futuristica “Città-Territorio”, una nuova forma di “urbanesimo” nel quale il vecchio paradigma della concentrazione demografica, che comporta inevitabilmente la formazione di periferie anche sociali, viene soppiantato da un innovativo modello di fruizione del territorio, sia in termini produttivi sia dal punto di vista relazionale, della convivenza e della condivisione.
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