Estetiche dell’accessibilità: come può cambiare il significato delle parole
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Asti - Vi voglio raccontare un incontro artistico che restituisce un’idea di accessibilità alternativa a quelle più comuni. È una storia che comincia ad Asti, dove Chiara Bersani e Giulia Traversi, alla guida di Spazio Kor, creano un’occasione di dialogo tra la coreografa Marta Olivieri e il duo artistico composto dal danzatore e coreografo cieco Giuseppe Comuniello e dalla drammaturga vedente Camilla Guarino. Dall’incontro nasce una pratica immersiva di improvvisazione che rende accessibile al pubblico cieco e ipovedente una preesistente performance di Marta Olivieri, Trespass_Processing An Emerging Choreography.
Alcuni mesi più tardi, il processo di ricerca trova una seconda casa al teatro Rossellini di Roma, all’interno della residenza artistica Creazioni Accessibili, lanciata attraverso una call nazionale da Orbita Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza, diretto da Valentina Marini. Per chi non fosse del mestiere, il sistema di produzione della danza contemporanea si muove principalmente attraverso lo strumento delle residenze, per cui spesso le pratiche artistiche attraversano e si depositano in molteplici contesti e luoghi.
La call di Orbita Spellbound mappa l’interesse della comunità artistica italiana rispetto alle pratiche dell’accessibilità e alle sue potenzialità estetiche applicate alla realizzazione di una creazione coreografica. Vengono coinvolti artisti e artiste con e senza disabilità in qualità di tutor ed esperti e l’associazione Al Di Qua Artists, portata avanti da lavoratrici e lavoratori con disabilità per interrogarsi su accesso ed equità all’interno del sistema di produzione dello spettacolo dal vivo.
Ho chiesto a Flavia Dalila D’Amico, studiosa di arti performative e responsabile all’accessibilità del Centro di Produzione, quali domande di ricerca abbiano guidato il progetto: «Il corpo è al centro delle nostre attività, che sono la programmazione, la produzione e le residenze artistiche. È stato quindi inevitabile chiedersi che tipo di corpi vogliamo che salgano sul palco e a quali corpi ci rivolgiamo. Uno dei macro obiettivi è il coinvolgimento di artiste e artisti con disabilità e una attenzione privilegiata a chi sta in platea e fruisce delle nostre attività».
La sua prima domanda è stata: “Come facciamo a coinvolgere un pubblico, specialmente la comunità sorda e quella cieca di Roma, che non è mai stato coinvolto né pensato nel sistema delle arti performative?”. «Non ci interessa lanciare una stagione totalmente accessibile – spiega Flavia –, perché non avremmo i risultati sperati. C’è prima bisogno di instaurare una relazione di fiducia rispetto a certi tipi di pubblico finora non coinvolti. Parallelamente, ci interessa concepire l’accessibilità non come un servizio, ma come principio estetico».
La parola “accessibilità” cambia quindi di significato: da un’idea di risultato o insieme di “adeguamenti” isolati a metodo di progettazione culturale. La metodologia dell’accessibilità invita le organizzazioni culturali a interrogarsi sulla relazione coi propri pubblici, partendo da quelli non ancora intercettati; a valorizzare il lavoro di artiste e artisti con disabilità, le cui estetiche ampliano le proposte culturali; e a riconoscere le persone con disabilità come esperte da coinvolgere per co-progettare trasformazioni di significato e d’azione.
Creare opere d’arte accessibili può riguardare opere d’arte preesistenti, rese “accessibili” ad alcuni pubblici disabili in un secondo momento, oppure creazioni pensate ex novo utilizzando un approccio accessibile, il che vuol dire pensare a chi ne usufruirà sin dal momento dell’ideazione. Dalla mia conversazione con Marta, Giuseppe e Camilla, appare tuttavia chiaro che anche nel caso della “traduzione” accessibile di un’opera già esistente, il prodotto finale sarà qualcosa di nuovo, come sottolinea Marta Olivieri: «Mi sono resa conto che se si immagina la possibilità di lavorare sull’accessibilità come un ampliamento percettivo ed estetico e non come un servizio, il risultato è una nuova creazione, che non è mai uguale alla precedente».
«Non si tratta di Trespass con l’audiodescrizione, ma di un altro lavoro che parte dallo stesso principio e dalla medesima struttura, ma non è la stessa cosa», aggiunge Marta Olivieri. «Il racconto modifica le regole di forma, di contenuto, di linguaggio, l’estetica e la percezione. Questo per me è l’aspetto più stimolante dal punto di vista creativo. Si verifica un’apertura percettiva che ha permesso anche a me di leggere meglio il lavoro. L’audiodescrizione è stata una possibilità di uno spostamento di sguardo netto, di cambiare postura».
Un secondo spostamento di senso rispetto al tema dell’accessibilità riguarda il superamento dell’idea che questa serva esclusivamente alle persone con disabilità. Gli strumenti di accessibilità, come ad esempio le audiodescrizioni, possono essere ripensati non solo come servizio sociale per una categoria di persone, ma come campo di ricerca artistica che tiene conto delle qualità fisiche, intellettive o sensoriali di chi ne fa esperienza per porsi domande di estetica, percezione, e partecipazione.
L’uso tradizionale delle audiodescrizioni prevede una descrizione “oggettiva” ed esaustiva di ciò che accade sulla scena, rivolta esclusivamente alla persona con una disabilità sensoriale, che in tal modo è informata sui contenuti dello spettacolo. Nel metodo di lavoro di Camilla Guarino e Giuseppe Comuniello invece le audiodescrizioni raccontano una esperienza soggettiva e quindi parziale, una relazione intima che i due instaurano con l’artista all’interno di un rapporto di co-autorialità. Giuseppe Comuniello mi racconta: «Nei lavori coreografici che abbiamo approcciato, questi non avevano né una storia, né dei personaggi, né una voce, che poi è lo spettacolo di danza contemporanea».
Proprio questo è stato un punto di forza: «Non siamo partiti con l’idea che l’audio descrizione potesse essere l’unica cosa che si potesse fare, ma una delle opzioni. Ciò che noi raccontiamo non è tutto ciò che accade sulla scena; si potrebbe anche descrivere tutt’altro, ma noi scegliamo di trasmettere quello che il dialogo con gli artisti, con i performer, con la performance ci lascia. Proviamo a restituire un piano di visione che stimoli l’immaginario, a restituire un’immagine, un quadro, una sensazione ad un pubblico che non può vedere, ma non solo perché può essere non vedente, ma perché può non avere gli strumenti per approcciarsi a ciò che accade sulla scena, che è in qualche modo celata».
Nel caso di Trespass, la vista di ciò che avviene sul palcoscenico è limitata da un sipario chiuso, accessibile al pubblico vedente attraverso due fessure laterali. Due voci, quella di Marta Olivieri e Camilla Guarino, restituiscono due diversi punti di vista che costruiscono un racconto per sovrapposizioni che non coincide esattamente con ciò che accade in scena. Questo attiva una sensazione di spaesamento che coinvolge l’intero pubblico, vedente e non vedente, che è invitato a sostare, muoversi se lo desidera, e scegliere come stare in quel luogo, in quel momento.
La decisione di abbandonare le classiche cuffie con cui normalmente si usufruisce delle audiodescrizioni a favore di una diffusione del suono nello spazio pubblico, segnala che l’accessibilità non è un’opzione per alcune persone, disponibile per chi ne ha bisogno, ma una condizione di fruizione che amplia gli strumenti a disposizione sia di chi crea che di chi fruisce l’opera.
Pensare l’audiodescrizione come campo di esplorazione artistica propone un cambiamento di postura rispetto all’entità “performance” e ci restituisce una nuova narrazione dell’accessibilità, al di là di concezioni stereotipate e divisive. È inoltre un’occasione di riflessione per la comunità della danza contemporanea e della programmazione culturale, come ci ricorda Giuseppe, sulla difficoltà di accesso ai linguaggi contemporanei dell’arte per chi non possiede gli strumenti necessari ad avvicinarvisi e su come ci si dovrebbe fare carico di questo gap.
Questo articolo fa parte di una serie di approfondimenti frutto della collaborazione fra Hangar Piemonte e Italia Che Cambia che ha lo scopo di raccontare la trasformazione culturale che stanno mettendo in atto persone, organizzazioni e intere comunità intorno a noi.
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