Ciro, il pizzaiolo che insegna ai detenuti: “Stando con loro ho sconfitto i miei pregiudizi”
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Brescia, Lombardia - In un’Italia che cambia a nessuno è preclusa la possibilità di un futuro migliore e dignitoso, anche in quartieri o realtà territoriali dove la speranza e la motivazione non riescono a germogliare. Abbiamo intervistato Ciro Di Maio, un giovane pizzaiolo napoletano che sta insegnando l’arte della pizza ai detenuti nel carcere Canton Monbello di Brescia grazie a un progetto ideato in collaborazione con Luisa Ravagnano, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, e sostenuto dalla direttrice del carcere, Francesca Paola Lucrezi. Un’idea nata nel 2019 ma rimasta in stand-by per via del Covid e che solo adesso inizia a decollare.
Ma andiamo con ordine. Ciro nasce nel 1990 a Frattamaggiore, un Comune del napoletano da madre casalinga e un padre dal passato burrascoso che è riuscito a volgere in positivo la sua vita e quella di suo figlio dopo aver incrociato sul proprio cammino le persone giuste, libere da pregiudizi e con la convinzione che tutti abbiano pari opportunità e dignità. Ciro, vissuto fin da piccolo in una realtà poco privilegiata, inizia a lavorare giovanissimo, all’età di 14 anni. Si iscrive anche all’Alberghiero ma a 18 anni abbandona gli studi per dedicarsi a tempo pieno al lavoro.
Si trasferisce a Brescia per caso, come lui stesso racconta: «Ho sempre viaggiato per lavorare nelle cucine dei ristoranti. Poi mi hanno offerto un’opportunità lavorativa qui a Brescia, dove mi sono fermato per più tempo e ho aperto la SanCiro, cucina e pizza madre». L’attività è dedicata alla tradizione culinaria napoletana e si chiama così per onorare non solo i suoi nonni, entrambi Ciro, ma anche un amico di suo padre, che portava lo stesso nome. Una persona preziosa, una sorta di angelo custode che ha permesso a suo padre di uscire da una strada sbagliata per imboccare il sentiero giusto. E lo ha fatto presentadogli le suore di Madre Teresa di Calcutta.
Incontri, come lui precisa, che «hanno dato un contributo significativo alla vita di mio padre e di conseguenza alla nostra esistenza». Infatti Ciro presta servizio da anni come volontario impegnato ad aiutare gli ultimi con azioni concrete nel sociale. «In passato, tutte le domeniche andavamo dalle suore di Madre Teresa di Calcutta con mio padre e realizzavamo tantissime iniziative sociali. Noi siamo partiti dalle case popolari, sappiamo cosa vuol dire affrontare le difficoltà senza una base solida e una famiglia che non può dare un supporto».
L’esperienza di Ciro dimostra che il contesto socio-culturale in cui si nasce e si cresce influenza nel bene e nel male le sorti di ognuno, ma gli incontri e le occasioni giuste possono rivolgere in positivo un passato poco felice, sostituendolo con prospettive future edificanti. «La mia vita privata ha influito tantissimo perché se non fossi partito dal mio passato, dal mio percorso, dalla mia famiglia, dagli incontri positivi sicuramente non starei qui a fare ciò che sto facendo oggi. L’arte di esportare la pizza in carcere è una delle mie prime iniziative, rivolta solo ai detenuti ma anche ai bambini down, perché mi danno gioia, affetto, mi tolgono tutti i pensieri negativi e mi fanno sentire libero».
Il progetto con i detenuti invece è in corso: «Abbiamo anche individuato una persona che è a fine pena da inserire nel mondo del lavoro e con cui avvieremo a breve un colloquio conoscitivo. Per me la pizza è un’opportunità di rinascita – ci confida Ciro – perché permette di avere un lavoro dignitoso ben retribuito e può rappresentare un’opportunità significativa per i giovani». I pregiudizi però rappresentano ancora un ostacolo. Bisognerebbe lavorare per sconfiggerli. Ciro è convinto che si possano combattere con la conoscenza diretta di ciò che si tende a giudicare.
«I pregiudizi ci sono e ci saranno sempre in tutto il mondo. Io ero il primo ad averne. Prima di entrare in carcere avevo tanti preconcetti nei riguardi di questi ragazzi. Poi stando a contatto con loro ho iniziato a ricredermi perché solo la conoscenza, lo studio e quindi l’opportunità di conoscere possono abbatterli. Io purtroppo non ho studiato nella mia vita. Ho sempre solo lavorato e avevo i miei pregiudizi. Oggi non ne ho perché stando a stretto contatto con loro ho capito che persone sono».
Ciro ha un’idea, quella di creare una sorta di consorzio di pizzaioli che, come lui, vogliano dare una possibilità a chi ha sbagliato e contemporaneamente ricoprire quei posti che sono ancora vacanti «per l’inserimento – come lui stesso dice – dei detenuti ma non solo loro, anche i ragazzi down. Già ci sono progetti bellissimi in Italia in tante regioni però si può fare di più e non è ma abbastanza».
Ci racconta di essere stato contattato da qualche imprenditore ma, tiene a precisare, «niente di concreto. Sono ancora tanti i pregiudizi e le persone sono scettiche. Però ci stiamo lavorando piano piano perché solo così le cose prendono la giusta forma. È inutile giudicare se non siamo pronti a fare qualcosa di concreto per cambiare la situazione e mi ci metto dentro anch’io. Se diciamo che quella persona non è utile alla società ma non facciamo nulla per renderla utile, per inserirla di nuovo nel mondo, è vano parlarne. L’intervento delle istituzioni non è sufficiente, perché se noi in prima persona non facciamo niente non cambia nulla. Ognuno di noi fa la differenza».
L’impegno di Ciro si sta dimostrando un valido supporto all’intenzione dello Stato di creare le condizioni necessarie affinché il condannato possa reinserirsi in società in modo dignitoso mettendolo in condizioni tali da non commettere nuovi reati una volta in libertà. Insegnare a fare la pizza ai detenuti ha significati più complessi rispetto a un semplice corso professionalizzante perché tocca positivamente quelle leve motivazionali utili a riaccendere la speranza in coloro che non sanno cosa sia o che l’hanno smarrita e a porre le basi per un tessuto socio culturale sano e democratico in cui a tutti sia garantita l’opportunità di ricominciare.
Ciro ci saluta con una riflessione che prende spunto da una frase bellissima di Giovanni Falcone: “gli uomini passano, le idee restano”. «Secondo me questa espressione racchiude tutto il nostro pensiero, il nostro progetto che può fare la differenza nel tempo perché solo esso ci può dare ragione. Solo il tempo può cambiare le cose. Con il tempo e le idee buone può avvenire un cambiamento radicale per qualcosa di veramente significativo: riuscire a trasformare queste persone attraverso il lavoro e la riappropriazione della dignità personale».
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